sabato, gennaio 06, 2024

Mattarella, carte in regola e dialogo con il Pci per mettere la mafia alla porta

Piersanti Mattarella (a dx) col presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini

Vito Lo Monaco
 

Si ricorda sempre, soprattutto ai giovani, che per comprendere il presente occorre conoscere il passato. Perché è stato ucciso, durante la seconda guerra di mafia (1978/1983), il 6 gennaio di 44 anni fa, Pier Santi Mattarella, prestigioso dirigente democristiano (Dc), presidente della Regione siciliana, apprezzato esponente della corrente di Aldo Moro?

Perché il suo processo è stato unificato con quello per gli omicidi di Michele Reina, segretario provinciale della Dc, anch’egli ucciso dalla mafia nel marzo 1979, e con quello su Pio La Torre ucciso il 30 aprile 1982? Perché tutti e tre si erano schierati, come tante altre vittime, nella loro attività politica e istituzionale apertamente contro la mafia denunciandone le complicità politiche, istituzionali, economiche.

Per Mattarella e Reina significava anche lotta interna al loro partito infiltrato dalla mafia, rendendo palese nelle loro scelte politiche e amministrative il ruolo condizionante di cosa nostra. Storicamente la sinistra comunista, socialista, cattolica aveva contrastato apertamente la mafia pagando un alto prezzo.
Mattarella ebbe modo, prima da presidente della commissione parlamentare poi da assessore regionale al bilancio per quasi un decennio, lavorare con competente impegno per fare chiarezza nei conti e nella gestione del potere politico amministrativo burocratico della Regione, secondo il suo motto “mettere le carte in regola”.
Nella fase storica degli anni ‘70 e ‘80 la Sicilia, il Meridione, l’Italia devono ancora risolvere i nodi dello sviluppo duale Nord/Sud, smaltire le conseguenze della prima crisi petrolifera mondiale, superare il fallimento delle politiche liberiste perseguite dai governi, contrastare il riarmo e la nuova tensione da guerra fredda tra i due blocchi che coinvolge la Sicilia e l’Europa con i missili nucleari a media gittata. È anche la fase del terrorismo, rosso e nero, che tentano di rovesciare, come in Cile, i sistemi democratici e della mafia il cui potere è accresciuto dal controllo sistemico del traffico di droga.
Nella Dc, grazie ad Aldo Moro, prevale la proposta di estendere la maggioranza di centrosinistra al Pci, il partito comunista più forte dell’Occidente per impostare le necessarie politiche riformatrici che la situazione impone. Moro pagherà con la sua vita questa sua proposta accettata dal Pci che sceglieva il Compromesso storico. In Sicilia Mattarella propone la solidarietà autonomista chiedendo al Pci di entrare nella maggioranza, ma non nel governo per superare le resistenze interne del suo partito. Il Pci accetta la soluzione condividendo nel 1978 il programma di riforme istituzionali, di programmazione di un autosviluppo “industrialista”, di decentramento della Regione verso gli enti locali, di riforma urbanistica, di trasparenza nella gestione burocratica della spesa per impedirne la gestione clientelare e corrotta. Per monitorare le riforme viene insediato un comitato per la programmazione presieduto da Mattarella e diretto da un prof segnalato dal Pci. Si fa tesoro della conoscenza (sacco edilizio di Palermo, ruolo del trio Gioia-Lima-Ciancimino ecc.) che le conclusioni della Commissione antimafia nazionale consentono per impedire il condizionamento mafioso sulla gestione delle risorse.
La mia esperienza personale di dirigente regionale del Pci di allora nella funzione di responsabile degli enti locali è indimenticabile. Ho avuto il privilegio di contribuire, coinvolgendo l’intero Pci siciliano, all’elaborazione delle leggi relative al decentramento di funzioni regionali agli enti locali (legge 1 del 1979), alle norme urbanistiche (legge 71 del 1978). Del presidente Mattarella ricordo sempre la sua capacità di ascolto e di rispetto umano anche quando avevamo opinione diverse. L’azione del Governo di solidarietà autonomista colse il nuovo corso della Chiesa palermitana e se ne avvantaggiò, prima col vescovo Francesco Carpino succeduto a Ernesto Ruffini e poi col cardinale Salvatore Pappalardo che presero posizione chiare di condanna della mafia e dei suoi rapporti con quelle parti della politica, della società e dell’economia compiacenti.
I processi hanno fatto chiarezza su una parte dei mandanti e degli esecutori. Non può essere messo in discussione che la mafia esiste perché parte della classe dirigente la sostiene. 
Ai giovani spiegare tutto questo è utile non solo per alimentare la memoria ma per dare loro gli strumenti culturali e per allontanare dal loro futuro le nuove mafie altrettanto pericolose per la democrazia e uno sviluppo moderno. 
 Vito Lo Monaco 

L'analisi | 5 gennaio 2024

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