giovedì, gennaio 04, 2024

I palestinesi di Gaza a rischio di deportazione “volontaria”


di Giuseppe Savagnone

Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu. Scrittore ed Editorialista.

Una proposta inquietante

Ancora più inquietante delle notizie quotidiane sulla spietata conduzione della guerra, nella Striscia di Gaza, è quella, rimbalzata in questi ultimi giorni sui giornali, riguardo alla sua possibile conclusione, che sembra prevedere una deportazione dei palestinesi residenti in questo territorio (gazawi) nella Repubblica del Congo.

Si chiama piano «The Day After». Ne avevano anticipato qualche giorno fa l’esistenza due ministri del governo di unità nazionale di Tel Aviv, Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir. Sarebbe «una soluzione umanitaria», hanno garantito. E soprattutto corrisponderebbe a una precisa esigenza, visto che, hanno detto Smotrich e Ben Gvir, «il 70% degli israeliani è per un’emigrazione volontaria dei gazawi, perché non è più accettabile che due milioni di persone si sveglino ogni mattina a cinque minuti da casa nostra sognando di distruggerci», mentre «la discussione sul dopoguerra sarebbe ben diversa se nella Striscia rimanessero solo 100-200 mila palestinesi, non due milioni».

Il Dipartimento di Stato americano, in una nota, ha duramente stigmatizzato le parole dei ministri israeliani. Il portavoce Matthew Miller ha parlato apertamente di «retorica provocatoria e irresponsabile». «Ci è stato detto ripetutamente e costantemente dal governo israeliano, compreso il primo ministro, che tali dichiarazioni non riflettono la politica del governo israeliano. Dovrebbero fermarsi immediatamente».

Il punto di vista degli Stati Uniti, infatti, è agli antipodi di questa prospettiva: «Siamo stati chiari, coerenti e inequivocabili», ha ricordato Miller, «sul fatto che Gaza è terra palestinese e rimarrà terra palestinese, senza che Hamas abbia più il controllo del suo futuro e senza gruppi terroristici in grado di minacciare Israele. Questo è il futuro che cerchiamo nell’interesse di israeliani e palestinesi, della regione circostante e del mondo».

Ha fatto seguito a questa la decisa presa di posizione del Quai d’Orsay, il ministero degli Esteri francese: «La Francia ricorda che il trasferimento forzato di popolazioni costituisce una grave violazione del diritto internazionale. Non spetta al governo israeliano decidere dove i palestinesi debbano vivere nelle loro terre. Il futuro della Striscia di Gaza e dei suoi abitanti sarà parte di uno Stato palestinese unificato che vivrà in pace e sicurezza accanto a Israele».

Tutto chiarito, dunque? Non proprio. Intanto perché i due ministri del governo israeliano non si sono affatto lasciati zittire, anzi hanno replicato senza mezzi termini: «Gli Stati Uniti sono i nostri migliori amici» ha scritto Ben Gvir su X, «ma prima di tutto faremo ciò che è meglio per lo Stato di Israele: la migrazione di centinaia di migliaia da Gaza consentirà ai residenti del confine di tornare a casa e vivere in sicurezza». Da parte sua Smotrich ha ribadito che «un Paese piccolo come il nostro non può permettersi una realtà in cui a quattro minuti dalle nostre comunità si trova un focolaio di odio e terrorismo».

A conferma che quella dei due ministri non era un’uscita isolata, è arrivata poco dopo la notizia, pubblicata dal quotidiano «The Times of Israel», citando fonti governative, secondo cui Israele sta trattando il reinsediamento dei profughi della Striscia di Gaza con paesi africani e arabi. In particolare – secondo quanto riporta il giornale – il governo ha avviato una trattativa con il Congo, che si sarebbe detto “disponibile”. Per quanto riguarda il mondo arabo invece – spiegano le stesse fonti – sarebbero in corso sondaggi con l’Arabia Saudita.

Da parte sua Netaniahu ha parlato pubblicamente di una deportazione, precisando che il problema è di trovare chi sia disposto ad accogliere gli esiliati, ma riferendosi finora solo ai «terroristi».

Il carattere “volontario” del trasferimento

In realtà quella di un trasferimento della popolazione di Gaza è un’idea che circola già da settimane. In ottobre, il ministro dell’Intelligence del governo israeliano, Gila Gamliel, aveva proposto all’Egitto di piazzare «temporaneamente» i gazawi nel deserto del Sinai. E alla fine di novembre, la dichiarazione congiunta finale del vertice straordinario dei leader dei paesi del Brics (un gruppo che raccoglie le economie emergenti del pianeta) diceva che questi Stati «si oppongono alla deportazione forzata dei palestinesi». Una ipotesi che evidentemente già allora era nota a livello internazionale .

Consapevole della difficoltà dell’espressione “deportazione forzata”, proprio in questi giorni sempre il ministro Gamliel, tornando sull’argomento, ha parlato di «creare condizioni che incoraggino i palestinesi che vogliono costruire la propria vita altrove».

Insomma, si tratterebbe di riprodurre quel fenomeno che, nella versione di Israele, è stata la «migrazione volontaria» dei palestinesi dai territori dove avevano abitato per secoli. Oggi si parla di «reinsediamento volontario» ed è un progetto, caldeggiato, come si è visto, da una parte del governo di Tel Aviv  che mira a incentivare la popolazione palestinese di Gaza a lasciare le proprie case. O, meglio, ciò che ne resta dopo tre mesi di bombardamenti, abbandonando l’idea della ricostruzione della Striscia e spostandosi all’interno dei confini di uno Stato estero.

Certo, il Congo, con il 52,5% della popolazione al di sotto della soglia minima di povertà, non sarebbe un paradiso. Ma non lo sono neppure i campi profughi dove, sempre secondo la ricostruzione storica israeliana, gli abitanti dei territori della Palestina si sarebbe spontaneamente ritirati, vivendovi ancora oggi accampati in condizioni proibitive. Perché non dovrebbe ripetersi un analogo trasferimento “volontario”?

Si diceva all’inizio che in tutto questo vi è qualcosa di più inquietante, forse, dei più di 22.000 morti, della fame, dello sfollamento forzato degli abitanti di Gaza dalle loro case, che la guerra finora ha provocato. Qui si tratta di un progetto che mira a sradicare un popolo dalla sua terra, uccidendone l’identità storica. Non è genocidio, certo. L’accusa del Sudafrica contro lo Stato ebraico presso il Tribunale internazionale dell’Aia persegue un falso bersaglio ed è destinata ad essere respinta. Israele non vuole sterminare i palestinesi. Vuole solo che se ne vadano. Non è genocidio. Il nome tecnico è “pulizia etnica”.

Il compimento di un progetto

Oggi come ieri. È quello che il programma sionista che è all’origine dello Stato ebraico ha sempre voluto. Certo, va detto che all’inizio le terre furono regolarmente acquistate dagli ebrei che cominciavano a insediarsi in Palestina. Ma ciò non riguarda se non una parte  – secondo alcuni il 10%  – del territorio. Come va detto che, in occasione della guerra del 1948 tra Israele e i paesi arabi, furono proprio questi ultimi ad esortare i palestinesi ad andarsene.

Ricordare questi aspetti della complessa questione, come ha fatto Pasquale Hamel nel suo intervento pubblicato recentemente su “Tuttavia”, è un contributo significativo alla ricostruzione dei fatti.

Ma ci sono altri aspetti che non possono essere ignorati e che sono stati messi in luce dagli studiosi israeliani della cosiddetta “nuova storia”, sorta negli anni Ottanta, i quali – come scrive uno di essi (Ilan Pappé, La pulizia etnica della Palestina) – «utilizzando principalmente gli archivi militari israeliani», hanno dimostrato «falsa e assurda» la tesi del «trasferimento volontario», rivelando «che le forze ebraiche avevano commesso un gran numero di atrocità».  

In realtà, come risulta da una documentazione inoppugnabile, fin dal marzo 1948 l’Haganà, la principale organizzazione armata clandestina sionista, guidata da Davide Ben Gurion (venerato dagli israeliani come “il padre della patria”) aveva programmato e avviato un programma di sistematica espulsione dei residenti palestinesi. La sua finalità era espressa nelle parole: «I palestinesi devono andarsene». A monte, c’era la «determinazione ideologica sionista ad avere un’esclusiva presenza ebraica in Palestina».

I metodi non erano quelli della compravendita: «Intimidazioni su vasta scala; assedio e bombardamento di villaggi e centri abitati; incendi di case, proprietà e beni; espulsioni; demolizioni; e infine collocazione di mine tra le macerie per impedire agli abitanti espulsi di fare ritorno».

«Ci vollero sei mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta, più di metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800.000 persone, era stata sradicata, 531 villaggi erano stati distrutti e 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti».

Scrive Pappé: «Davide Ben Gurion, nel suo libro Rebirth and Destiny of Israel, p.530, notava candidamente che: “Fino alla partenza degli inglesi, il 15 maggio 1948 nessun insediamento ebraico, anche remoto, era stato attaccato o occupato dagli arabi, mentre l’Haganà aveva conquistato molte posizioni arabe e liberato Tiberiade, Haifa, Giaff e Safad (…). Così, nel giorno del destino, quella parte della Palestina dove l’Haganà poteva operare era quasi ripulita dagli arabi”». Non si parla così del risultato di una legittima compravendita di terreni né di un esodo volontario.

Oggi questo progetto – perseguito peraltro sistematicamente con la moltiplicazione degli insediamenti illegali in Cisgiordania – sembra prossimo a trovare il suo compimento con la espulsione dei palestinesi anche da Gaza, dove si erano rifugiati. Sempre sottolineando che questo avverrà “volontariamente”.

Magari anche grazie a una tempesta di fuoco che ne ha già uccisi 22.000 e distrutto più del 30% delle case e a un blocco dei viveri e dell’energia che ha ridotto i superstiti – secondo tutte le agenzie umanitarie – a condizioni di vita disperate. E, come è chiaro da come sono andate le cose finora, neppure l’opposizione degli Stati Uniti sembra in grado di fermare il governo di Netaniahu.

Come non lo sono state le imponenti proteste di piazza che da tre mesi si susseguono in tutte le città occidentali. Del resto, continua ad essere predominante nei governi occidentali, la tesi che Israele va comunque difeso perché esprime i valori  della nostra democrazia e che – come ha detto un nostro uomo politico, stigmatizzando quelle proteste – , «l’odio per Israele è l’odio che l’Occidente ha per se stesso, per la libertà, l’uguaglianza e i diritti umani».

Tuttavia.eu, 4 gennaio 2024

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