martedì, gennaio 16, 2024

Accadde a Siracusa nella prima metà del 1800: Anna LEPIK e la “scellerata colonna”


di LAURA LIISTRO

Al centro di questa storia c’è una donna, Anna Maria Lepik, una moglie, una madre ed una figlia vissuta al tempo del colera. Anna Maria aveva 18 anni quando fece Storia.

Era diventata siracusana da poco tempo, ma era nata nel Tirolo ed apperteneva alla famiglia di Antonio Lepik della compagnia circense di Marsiglia. La giovane vita di Anna Maria cambiò quando sposò il francese Joseph Schwentzer di Giorgio,di anni 36, nato in Tolone. E’ venerdì 21 luglio 1837, ore 14, e tutto si sta svolgendo nella casa comunale di Siracusa. Il suo interrogatorio, reso più pesante dalla forte calura siciliana, fu breve ed intenso ma, con concretezza, Anna Maria rivendicava l’innocenza sua e del marito Joseph.

La coppia si trovava al centro del vortice: erano accusati, insieme ad altri individui, di essere untori del colera scoppiato a Siracusa che mieteva vittime a migliaia.

Tra il popolo inferocito si sparse voce che il veleno fosse stato ordinato dallo stesso Re.

Il regime dei Borboni non aveva saputo contrastare efficacemente la pervasività del colera, ma non era certamente colpevole della sua triste diffusione.

Michele Amari, che lavorava presso l’Intendenza, scrisse nella “Descrizione del choléra” che il governo aveva operato con determinazione, ma il popolo vedeva ovunque veleni.

In quei terribili giorni di luglio nel lontano 1837, la ragione perse luce tra la disperazione del volgo, l’ignoranza ed il fanatismo religioso facevano scena senza differenza di classe.

Lo scienziato Domenico Scinà, infatti, insieme all’arcivescovo di Palermo, Gaetano M. Trigona, erano convinti che il mortifero vomito orientale, detto colera, fosse il veleno dei Borboni.

A Siracusa il 21 aprile veniva designato sindaco di Siracusa il barone Emanuele Francica, barone di Pancali, attorno al quale si unirono settori della massoneria e della carboneria.

Il Pancali era stato individuato come colui destinato a risollevare la città dalla prostrazione politica, amministrativa e sociale. Come sostiene Serafino Privitera, egli era “cittadino di umani sensi verso i poveri e di grand’uomo e saldo a sostenere liberamente in faccia a qualunque prepotenza i diritti del popolo”.

Il colera, già scoppiato a Napoli, fece preparare Siracusa al terrore e la gente preoccupata cominciò a parlare di untori, di sostanze venefiche sparse nell’aria, sui cibi, nelle fontane.

Si diceva apertamente che il governo borbonico diffondeva il veleno per ridurre l’eccessivo numero di sudditi.

L’apparizione del morbo coincise con i preparativi per la sommossa liberale anti-borbonica.

Il 18 luglio 1837 gruppi di popolani, operai e contadini, armati di archibugi, bastoni e accette si misero insieme a cercare l’untore.

All’improvviso, diciamo all’improvviso, incontrarono, Joseph Schweitzer, u furasteru (lo straniero). I tribuni del popolo, pronti a condannare e a sostenere la loro imperiale parola, scesero dalla casa della coppia Schweitzer ed esultando, portarono via alcuni oggetti sottratti dall’abitazione per testimoniare l’accusa. Questi oggetti consistevano in una cassa, un paniere ed una cassettina.

La casa degli stranieri era nel palazzo del cavalier Oddo, sita in via Roma n. 106, era sede della massoneria siracusana e carboneria locale, fu perquisita ma l’unica cosa interessante trovata fu una “polvera bianca” che, sottoposta ad un esperimento con il carbone acceso, rimaneva imbiancata.

Era una piccola quantità di ossido di arsenico che, testata su un cane, dimostrò con fremiti e convulsioni, la morte immediata.

L’indizio fu trovato: ecco il veleno!

I siracusani furono subito informati del ritrovamento dell’untore con un manifesto, firmato dal Sindaco Barone Pancali, datato 21 luglio.

Furono così arrestati Anna Maria e Joseph con altri.

Anna Maria, con la piccola Natalie, fu nascosta in una stanza al buio, al pian terreno della casa comunale, forse perché destò pietà.

Il popolo, invece, osannava la cattura, innalzando le cassette del cosmorama come reliquie imbevute d’aceto, sperando di neutralizzare il veleno, girovagava per piazza Duomo.

Il sindaco Pancali istituì immediatamente una commissione di sessanta cittadini con il compito di ripristinare l’ordine pubblico, provvedere all’annona e alla riscossione delle imposte.

Il giudice Francesco Mistretta, invece, venne incaricato di istruire il processo contro gli accusati di procurato avvelenamento.

La folla non si fermò e aspettò con ansia che l’avvocato Mario Adorno, capo della frangia più estremista dei liberali di Siracusa, stringesse un patto con il Pancali per lavorare insieme “per il bene dell’umanità”.

Malgrado tutto, iniziarono i massacri.

Il gobbo artista Schweitzer, detto il cosmorama per il meccanismo usato durante il suo originale spettacolo pagato dal pubblico siracusano cinque grana, il 20 luglio iniziò a vivere il terrore con un processo in cui offrì diverse versioni.

Inizialmente, cercò di far credere di lavorare per il Governo francese e che, da un suo incontro a Milano con lo spargitore di veleni, la sua vita cambiò in quanto si fece coinvolgere dalla missione anti-borbonica.

Joseph, durante l’interrogatorio, descrisse anche la moglie Anna come una ragazza che amava ridere, recitare, stare al centro dell’attenzione, compiaciuta della sua bellezza.

Anna Maria, sotto terrore, raccontava della sua spensieratezza, dell’amicizia con l’amico Omodei di Augusta e delle sue passeggiate a cavallo tra i vicoli di Ortigia.

L’abate Emilio Bufardeci la definiva “una giovanotta a 18 anni, bella come un angelo”.

Contrario alla bellezza della Lepyck fu Emanuele De Benedictis, storico e patriota liberale siracusano che, con le sue parole, cancellò il fascino della donna dicendo “non era bella come un angelo, era un corpicino sparuto, di membra delicate, corti e inanellati capelli, faccia piccola, piccola fronte, naso piccolissimo e schiacciato, bocca larghella, labbra un po' sporgenti, carnagione bianchissima.”

Forse troppa sensualità per l’epoca o troppa libertà.

Tutto il mese di luglio fu segnato da interrogatori pressanti sia per Joseph che per Anna Maria.

La città, ai primi di agosto, fu lasciata nelle mani dell’avvocato Mario Adorno, in quanto la situazione diveniva sempre più pericolosa e pure il sindaco cercò riparo nelle campagne del siracusano.

Mario Adorno, invece, restò a mantenere il controllo delle pattuglie di quartiere, organizzate per controllare la cittadina in preda al contagio e alla morte.

Joseph, da dietro le sbarre, cercò di avvisare il popolo con una lettera, scrivendo di subire una forte ingiustizia ma, in realtà, peggiorò la situazione perché, giorno dopo giorno, il tormento di non sapere nulla di Anna e Natalie lo rese sempre più impotente e travolto dall’odor di morte misto alla calura siracusana e alla forte stanchezza, i suoi pensieri furono travolti dalla bolgia, dallo smarrimento e dalla mancanza di lucidità

Studiava tutte le soluzioni per venirne fuori e, pur di risolvere il dilemma, decise di ammettere la sua totale innocenza.

Anna Maria, con in braccio Natalie, fu portata davanti gli occhi di Joseph che, non potendola toccare, con forte emozione, le giurò di salvarsi raccontando la verità dei fatti.

Ma quale verità?

I fatti furono sempre più diversi.

Fu così che, mercoledì 5 agosto 1837, la morte diede sfogo alle paure del popolo, terrorizzato, osannando Santa Lucia, giunsero alle Carceri Vecchie così dimenticando clemenza.

Joseph ed Anna Maria, tra la folla e le campane a rintocchi rapidi, furono portati al Duomo senza la loro Natalie, per essere giustiziati davanti agli occhi del popolo assetato di sangue.

I seni di Anna Maria, secondo il racconto popolare, furono tagliati ed offerti su un piatto a Santa Lucia.

Natalie, strappata dalle braccia della madre, fu affidata, dopo qualche giorno dopo, al nonno Antonio Lepick della compagnia circense di Marsiglia che giunse a Siracusa da Leonforte, ultimo paese in cui si era fermato con il suo circo.

Oltre alla coppia furono fucilate altre persone, in totale 14.

Il popolo gioiva di quegli eccidi perché convinta di aver reso un servizio all’umanità, ai propri cari, ma questa era solo una gioia creata dall’illusione della forza della rivoluzione.

L’alba del 6 agosto trovò i cittadini della provincia di Siracusa ancora in preda ad episodi di odio, furore popolare, assedi alle carceri, uccisioni di civili e autorità, in cui si mescolavano il terrore del morbo ma anche vendette private e conflitti di classe e Siracusa ricevette la visita

Del Carretto.

Quest’ultimo era convinto che l’uccisione di tante persone ed autorità fosse opera dei liberali, con il pretesto dell’avvelenamento e scrisse al Re :

Bisogna dare alla città una punizione esemplare.

Del Carretto punì pure la città togliendo il capoluogo del Vallo e consegnandolo a Noto e, non convinto della sua punizione e del suo messaggio ai ribelli siracusani, nominò una commissione militare ad hoc, con bando del 4 settembre, per ricercare, tramite elenco, partecipanti ai moti.

Fu così che le carceri si riempirono di cittadini: Avola 134, Sortino 141, Floridia 120, solo per citare alcuni comuni.

Non ci fu scampo neppure per il sindaco Pancali ed il giudice Mistretta, accusati di essere gli organizzatori della spedizione, furono insieme arrestati .

Il giudice Francesco Mistretta, per salvarsi, giustificò la sua presenza a fianco dei liberali come mezzo finalizzato a conservare atti processuali e documenti testimoniali, che in mano ai ribelli sarebbero certamente andati distrutti.
Con questa testimonianza, non solo fu giustificato, ma pienamente reintegrato nel suo ruolo di giudice, fu nominato uomo di legge nella commissione militare che procedette con giudizi subitanei ai processi.

Con un suo dettagliato parere scritto, allegato alla sentenza, sostenne la necessità della condanna a morte di Mario Adorno, del figlio Carmelo, e Concetto Lanza accusati di cospirazione contro lo stato furono fucilati nella piazza del Duomo di Siracusa il 18 agosto, alle ore 18, davanti alle colonne su cui era avvenuto il massacro di Joseph, Anna Maria e gli altri.

Le ‘colonne scellerate’, dette così dal Marchese Del Carretto in una informativa al Re la sera del suo arrivo, furono il luogo in cui i siracusani sfogarono la loro ira senza barlume di ragione per una Giustizia fortemente ingiusta e Siracusa perse il ruolo socio- economico e politico.

La città cadde in disgrazia , iniziò a dipendere da Noto per dieci anni, a vivere umiliazioni, a pagare tasse non dovute perché non capoluogo di provincia e , come per condanna, non fu mai ascoltata.

L’anno dopo, 1938, la popolazione fu ridotta da città dal grande passato a misera realtà.

La Diocesi di Siracusa, altrettanto, non fu risparmiata , infatti, fu creata la sede vescovile di Noto ed il territorio della Diocesi di Siracusa divenne un fazzoletto di terra.

Non basta che ripetere , a distanza di secoli, le parole di  Emilio Bufardeci  “Le funeste conseguenze di un pregiudizio popolare ”.

Laura Liistro

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Bibliografia 


L’Ottocento tra colera ,Rivoluzione,Follia e Risorgimento :l’età dei medici patrioti.

di Antonio Randazzo 


Archivio di Stato di Siracusa,Processi politici del 37 ,buste 598-601


Emilio Bufardeci  “Le funeste conseguenze di un pregiudizio popolare ”


Storia di Siracusa antica e moderna 

di Serafino Privitera


La Sicilia moderna dal Vespro al nostro tempo 

di Giuseppe Giarrizzo

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