sabato, giugno 10, 2023

Oggi è il 22° anniversario della canonizzazione di fra Bernardo, il frate cappuccino di Corleone, che Papa Giovanni Paolo II proclamò santo il 10 giugno del 2001

Roma, 10 giugno 2001, piazza s. Pietro durante la canonizzazione di San Bernardo

DINO PATERNOSTRO
Oggi ricorre il 22° anniversario della canonizzazione di fra Bernardo, l’umile frate cappuccino, originario di Corleone, che Papa Karol Wojtyla chiamò agli onori dell’altare il 10 giugno del 2001

San Bernardo, al secolo Filippo Latino, figlio del conciapelle mastro Leonardo, era nato a Corleone il 6 febbraio del 1605. Il padre era originario di Chiusa Sclafani, mentre la madre, Francesca Sciascia, era corleonese. Vivere a Corleone in quegli anni non era facile. Specie per la povera gente. Probabilmente Leonardo Latino vi si era trasferito dalla vicina Chiusa Sclafani nella convinzione che in una cittadina più grande avrebbe potuto con più facilità sbarcare il lunario. Corleone, infatti, era una città del demanio regio, non aveva un si­gnore che poteva decidere della sua sorte, ma un pretore, dei giurati e un sindaco che l’amministravano per conto della Corona. Crescendo, Filippo incarnò bene il modo di essere della sua città. Aveva un carat­tere fiero, una volontà di ferro e manifestava insofferenza per le regole e per la disciplina. Se a ciò si aggiunge che si era tanto appassio­nato all’arte della scherma, da cogliere ogni occasione per lasciare la bottega del padre o quella del calzolaio, dove era stato mandato per imparare un mestiere, e correre ad addestrarsi nel maneggio della spada, si possono ben capire le preoccupazioni della sua famiglia. La “tentazione”, tra l’altro, l’aveva a portata di mano.

A Corleone, infatti, da poco tempo erano stati ultimati i lavori di costruzione della caserma e, il primo maggio del 1618, era arrivata in paese la prima compagnia di sol­dati, detti Borgognoni perché assoldati in gran parte nell’antico Ducato di Borgogna, al servizio del cattolicissimo Re di Spagna. Filippo e, con lui, altri ragazzi di Corleone subirono immediata­mente il fa­scino delle parate, delle manovre e delle esercitazioni militari. In questo erano incoraggiati dal governo dell’isola, fortemente interessato a preparare future reclute per le regie armate. Giorno dopo giorno, il giovane cominciò a prendere confidenza con le armi e ben presto imparò da quei soldati l’arte della scherma. Ma «in brevissimo tempo fece tali progressi… da non avere più bisogno degli insegnamenti altrui, anzi, continuando ad esercitarsi senza posa e con passione alle finte, ai mulinelli, alle passate, alle stoccate e ai rovesci, sarebbe arrivato alla gloria di sentirsi procla­mare, un giorno, prima spada di Corleone ed anche di tutta la Sicilia», racconta fra Girolamo da Parigi nel volume “Il Beato Bernardo da Corleone”, edito a Palermo nel 1961.

Ed ecco come Filippo usava la sua spada. ra l’estate del 1626, il tempo della mietitura in un grosso centro agricolo come Corleone. Migliaia di contadini si recavano ogni mattina, prima dell’alba, nelle campagne corleonesi, per tornare la sera col buio fitto, dopo un’in­tera giornata passata curvi sotto il sole a mietere il grano con la falce e la forza delle loro braccia. Erano tante le terre coltivate a grano, che per la campagna di mietitura non bastavano i soli braccianti agricoli del paese. Arrivavano, allora, a Corleone centinaia di lavoratori dai comuni del circondario ed anche da Misilmeri, Villabate e Bagheria, i comuni della fascia costiera - attirati dalla possibilità di guadagnare qualche soldo. L’urgenza di completare la mietitura spingeva, infatti, i padroni ad aumentare la paga giornaliera, con­sentendo a tanti lavoratori poveri di raggranellare un bel gruzzoletto da riportare a casa a stagione ultimata, per sfamare le loro famiglie durante i rigori dell’inverno. Non avendo un tetto sotto cui dormire, la sera si sistemavano alla meno peggio sul lastricato della piazza o sugli scalini della Chiesa della Madre. Si addormentavano stanchi, dopo una dura giornata di lavoro, ma nottetempo venivano svegliati di so­prassalto dai soldati spagnoli di stanza a Corleone, che li costringevano a consegnare i loro risparmi. Una pratica odiosa, che si ripeteva quasi ogni notte e che provocò l’ira di mastro Filippo Latino.

Una sera, travestito col largo costume di tela bianca dei mietitori e con una spada accuratamente nascosta, si avvicinò alla scalinata della Matrice, dove già gli altri operai si preparavano a trascorrere la notte. «Per questa sera - spiegò loro - cercate un altro posto dove dormire, perché qui è troppo pericoloso. Fra poco arriveranno i soldati per rubare il sudore delle vostre fatiche, ma troveranno me ad attenderli. Vi prometto che farò perdere loro il vizio!». I mieti­tori, stupiti per le parole che avevano sentito, ma affascinati dal tono sicuro e dallo sguardo magnetico del loro interlocutore, si al­lontanarono. Filippo si adagiò su uno scalino e fece finta di addor­mentarsi. Presto arrivò la notte e, con essa, i soliti “bravi” intenzio­nati ad alleggerire le tasche dei malcapitati di turno. «Simulando di dormire profondamente, cogli occhi semichiusi, ebbe agio di contarli e dire fra sé: “Sono otto!” (…). I malcapitati, ignari del tranello che li attendeva, ed ingannati da quel sonoro russare, si fe­cero innanzi delicatamente ormai sicuri del bottino da raccogliere. “Ma questa sera ce n’è uno solo”, esclamò con sorpresa uno di essi! (…) Ormai erano sul posto e bisognava contentarsi, perciò si posero intorno e si disposero ad esplorare le sue tasche», racconta ancora fra Girolamo da Parigi.

E aggiunge: «Fu quello il momento ansiosamente atteso da mastro Filippo, il quale, come scosso da una potente energia, saltò fulmineamente in piedi e con la spada in mano emise un grido terrorizzante. I rapinatori scossi dalla sorpresa rimasero momentaneamente intontiti; poi, in­vasi da folle terrore, si precipitarono giù per la scala emettendo grida di spavento. Mastro Filippo, che per agilità di gambe e robu­stezza di braccia non era ad essi secondo, li inseguì velocemente gridando ed assestando piattonate di spada su quelle spalle che pro­varono le odiate carezze di una collera decuplicata. I soldati, temendo d’avere a che fare con un demonio o con uno spettro, presi da grandissimo terrore, nell’impetuosità della corsa imboccarono la via che scende dinanzi alla Chiesa, dove, invece di sfuggire all’inseguitore, prestavano comodo bersaglio al suo spa­done, che conciava di santa ragione le loro schiene. Percorrendo in tal modo le anguste vie dell’abitato, le grida e le bestemmie dei me­desimi produssero un tumulto così straordinario, da attirare alle fi­nestre i corleonesi che venivano destati dal sonno di soprassalto...». Comunque, da quella notte, i mietitori poterono tornare a dormire tranquilla­mente sulla gradinata della Matrice, senza il timore di vedersi deru­bati delle loro misere paghe.

Ma nella famiglia di Filippo non erano contenti. «Cessa - gli diceva la madre, Francesca Sciascia - cessa di maneggiare codesta spada, perché essa ti apre una via che conduce a precipizi sconosciuti! Lascia dunque quel brutto arnese! Tu ne sarai contento ed io lo sarò più di te, io, tua madre che ti ama tanto!». Anche i fratelli e le sorelle rimprove­ravano amorevolmente Filippo, invitandolo a lasciar perdere uno sport così pericolo, ma egli non intendeva ragione. «Dopo tutto, di­ceva a se stesso per tranquillizzare la coscienza, la mia spada è stata e sarà sempre cristiana, perciò mia madre non può opporsi all’uso che ne faccio, poiché essa non vuole altro da me che una cosa: ve­dermi agire da cristiano». Ma in un pomeriggio d’estate del 1626, sfidato a duello dal palermitano Vito Canino, Filippo lo affrontò e gli tranciò di netto i nervi del braccio destro, rendendolo invalido per tutta la vita. Per il giovane corleonese fu un vero e proprio shock, che lo fece riflettere sull’indirizzo da dare alla sua vita. Da lì a poco, cambiò radicalmente vita e decise di farsi frate cappuccino. Peregrinò in tanti conventi della Sicilia, praticando l’obbedienza e l’umiltà. Quando morì nel convento dei cappuccini di Palermo, il 12 gennaio 1667, da tanta gente era già considerato un santo.

Fra Bernardo è stato proclamato santo da Papa Karol Wojtyla il 10 giugno 2001, quando molti ormai pensavano che si fosse avverata la profezia di fra Girolamo, il frate cappuccino suo compaesano che, in un momento d’ira, gli aveva gridato: "Bernardo, né tu santo, né io beato". E, in effetti, il 3 febbraio 1762, quasi un secolo dopo la sua morte, fra Bernardo da Corleone era stato proclamato beato da Papa Clemente XIII. Ma il passaggio successivo, la proclamazione a santo, che si pensava dovesse avvenire da un momento all’altro, non era più avvenuta. Anzi, sembrava che sull’umile frate

Cappuccino di Corleone fosse calato il velo del silenzio. Lo stesso che era calato su fra Girolamo, mai diventato beato.

Almeno per quanto riguarda fra Bernardo, però, fra Girolamo si sbagliava. A metà degli anni ’90, infatti, riavviato il processo di canonizzazione, la Chiesa cattolica ne aveva riconosciuto i miracoli, proclamando solennemente la sua

santità. Fu personalmente Papa Giovanni Paolo II, quella mattina del 10 giugno di ventidue anni fa, che iscrisse il nome di Bernardo nell’albo dei santi, in una piazza San Pietro gremita da fedeli corleonesi.

Il 2 aprile 1995, quando presentò la formale domanda per la riapertura del processo di canonizzazione, fra Giovanni Zappulla, ex ministro provinciale dei Cappuccini, l’accompagnò con delle considerazioni molto interessanti ed innovative. "Il beato Bernardo - scrisse, infatti, fra Zappulla - per la sua vita di austerissimo penitente, per la coraggiosa protezione della povera gente, per il suo rifiuto ardito di tutte le forme di violenza che insidiavano la virtù delle donne indifese, di mietitori e braccianti agricoli allo sbaraglio, durante i lavori stagionali nel Corleonese, potrebbe essere proposto come protettore di tutti coloro che, dal dovere professionale, sono chiamati alla difesa del cittadino, contro tutte le forme di violenza e soprusi, comunque etichettati". E la città di

Corleone - sottolineava il frate cappuccino - "potrebbe per titoli di santità eroica, di civismo e di coraggio, essere opposta con risolutezza a nomi di corleonesi famigerati come fuorilegge".

Dino Paternostro


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