domenica, giugno 11, 2023

Sicilia. Non solo salari più bassi. Anche le pensionate hanno meno degli uomini


di ALESSIA CANDITO

Studio dello Spi- Cgil sulle disparità di genere. I lavoratori a riposo ricevono in media 500 euro più delle donne

Uguale mansione, uguale retribuzione. Uno dei principi cardine dello Statuto dei lavoratori — o di quel che ne resta — per le donne, soprattutto del Sud, non vale. Né negli anni di carriera, né dopo, quando tocca fare i conti con la pensione. A dimostrarlo, dati alla mano, è uno studio dello Spi-Cgil Sicilia che ha passato al setaccio retribuzioni, pensioni di anzianità e di invalidità di varie categorie di lavoratrici e lavoratori dell’Isola, confrontandole poi con quelle percepite al Nord. Risultato: quasi cinquecento euro di differenza a fine carriera fra siciliani e siciliane, che rispetto alle lavoratrici del resto d’Italia arrivano a ricevere più di cento euro in meno. 
Nel dettaglio, se per le siciliane l’importo medio della pensione è di 823 euro al mese contro i 945 della media italiana, i siciliani invece percepiscono in media 1.326 euro.

Stessa sperequazione si registra sulle pensioni di invalidità: per le donne in Sicilia si attestano sui 578,84 euro, per gli uomini arrivano a 769. È l’esito quasi scontato di un gender gap che caratterizza tutta la vita lavorativa delle donne. Una piaga italiana che nell’Isola è ancora più profonda. «Il gap salariale, così come il mancato riconoscimento del lavoro delle donne, deve far riflettere — dice la segretaria generale dello Spi-Cgil Sicilia, Maria Concetta Balistreri — Non possiamo parlare di denatalità senza parlare di welfare e riconoscimento del lavoro delle donne» . Che anche quando svolgono il medesimo lavoro degli uomini finiscono per percepire molto meno. 
Esempi? Un operaio nell’Isola guadagna 14.199 euro l’anno, mentre se la stessa mansione è svolta da una donna, il salario annuo medio quasi si dimezza: 7.545 euro. Lo stesso accade fra i “colletti bianchi”, dove la differenza è di circa il quaranta per cento e pesa quasi diecimila euro, perché se un impiegato ogni anno guadagna in media 24.471 euro, le donne che fanno lo stesso lavoro non superano i 14.573. Enorme la differenza fra i dirigenti: gli uomini percepiscono poco più di 100mila euro in dodici mesi, le donne appena 54.509. Solo nella fascia dei quadri le retribuzioni annue sono quasi allineate, sebbene le donne rimangano sempre un passo indietro: a fine anno i colleghi ricevono 59.962 euro, loro si fermano a una media di 51.858 euro. La forbice torna larghissima tra i dirigenti: gli uomini percepiscono poco più di 100mila euro in dodici mesi, le donne appena 54.509. 
Motivi? Tanti. Le donne spesso entrano tardi nel mondo del lavoro, magari ne escono quando nascono i figli. E, se ci rimangono, tocca quasi sempre a loro rinunciare a straordinari, scatti di carriera o al tempo pieno perché, in assenza di un sistema di welfare, su di loro si scarica l’onere della cura di bambini e anziani. «Le donne continuano ad avere difficoltà a trovare lavoro — sottolinea Concetta Raia, della segreteria regionale del sindacato pensionati Cgil — o lo trovano a condizione della negazione di diritti e tutele fondamentali». Lo Stato di certo non aiuta. Asili e nidi pubblici si contano sulle dita di una mano, il tempo pieno in molte delle scuole del Sud non esiste, i servizi alle famiglie sono inesistenti. Tutte questioni che il governo Meloni dimentica quando mette alla berlina le donne che decidono di non avere figli o immagina che la soluzione possa essere un assegno. «Pensare di risolvere il problema — sottolinea Raia — introducendo i movimenti per la vita nei consultori o nelle strutture per un non meglio specificato servizio di informazione in difesa del valore della maternità e del concepimento, è falso e sbagliato — Se si vuole favorire la natalità si devono cambiare le politiche di welfare che guardano alla famiglia, non in maniera bigotta ma strutturale». 
La Repubblica Palermo, 10/6/2023

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