venerdì, marzo 24, 2023

Fosse Ardeatine, perché Meloni non sa pronunciare la parola "antifascisti"


di PAOLO BERIZZI

Di fronte al bivio tra dovere di Stato e identità politica, la premier riesce a infilare la strada della contorsione verbale

Come sempre accade quando nella comunicazione istituzionale si trova di fronte al bivio di dover armonizzare gli oneri di "funzionario di Stato" con il mantenimento dell'identità politica che non può e non vuole tradire, anche nel giorno del ricordo dell'eccidio nazifascista delle Fosse Ardeatine Giorgia Meloni riesce a infilare la faticosa strada della contorsione verbale.

Un esercizio al quale la premier ci ha ormai abituati, ma che ogni volta mette a nudo l'essenza stessa della strategia meloniana: usare sempre e solo parole che fanno comodo alla leader di partito, che alimentano - o comunque non scontentano - la pancia di un pezzo di elettorato di FdI, che garantiscono la salvaguardia delle "radici". Tutto questo a scapito degli standard qualitativi imposti dal ruolo di presidente del Consiglio "di tutti".

Quando Meloni, nel ricordare la "ferita profonda e dolorosa" della strage del 24 marzo 1944 e il "dovere civico della memoria", parla di "335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani", fa una scelta linguistica precisa. Una scelta di campo. La premier sa benissimo che quelle 335 vittime non sono state massacrate in quanto "italiani" punto. Così come pure sa che i trucidati non erano solo italiani.


Dovrebbe essere a conoscenza, visto l'incarico che ricopre, che i "335 italiani innocenti" sono stati sterminati dai fucili nazifascisti perché erano: antifascisti, ebrei, partigiani, politici, dissidenti. Perseguitati da mettere al muro. Affermare che i boia tedeschi e i loro alleati italiani li abbiano fatti fuori in quanto "italiani" è puro artificio: è l'ennesimo espediente a cui Meloni ricorre per non pronunciare le parole "antifascisti" e "antifascismo".

Termini impronunciabili per chi considera l'antifascismo un valore non fondante, un fastidio, un inutile orpello da mandare in soffitta ("io non sono antifascista" ricorda Ignazio La Russa, presidente del Senato e co-fondatore del partito guidato da Meloni). O meglio: pronunciabili e spendibili solo se e quando servono a impallinare ciò che quelle parole chiave della nostra Costituzione repubblicana esprimono.

Che cosa resta da fare, dunque, lungo il tracciato di questo continuo zigzagare nella storia? Semplice: aprire l'ombrello "onnicomprensivo" (Meloni dixit) degli "italiani". E infatti. Dopo le prevedibili polemiche e gli attacchi piovuti dalla sinistra e dalle associazioni partigiane e dei familiari delle vittime del nazifascismo, la presidente del Consiglio ha replicato da Bruxelles: "Perché gli antifascisti non sono italiani? Mi pare onnicomprensivo".

Girare la frittata e, allo stesso tempo, allargare il buco provando a mettere la toppa. Non c'è niente da fare: nella narrazione della leader di FdI, dei suoi ministri, degli esponenti di punta del partito che traina l'esecutivo, la notte più buia della violenza nazifascista - l'eccidio delle Fosse Ardeatine, di cui ricorre il 79° anniversario - è e resta genericamente, per dirla con Gennaro Sangiuliano, "una ferita profonda e viva nel corpo della Nazione".

Nessun accenno (non sia mai) a chi erano gli "italiani" martiri uccisi per rappresaglia in una cava poco lontano dalle loro case. Al fatto che hanno pagato con la vita il tentativo di opporsi alla furia del regime di Mussolini e all'ideologia di morte e allo sterminio ebraico di Adolf Hitler.

Ecco il punto. Se Giorgia Meloni crede davvero che ricordare "335 italiani" sia un "dovere civico", allora il primo dovere è quello della verità delle parole. Che altrimenti si svuotano di senso. E rischiano di volare via senza lasciare una traccia condivisa nella Repubblica antifascista a cui anche il capo del governo appartiene.

La Repubblica, 24/3/2023

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