domenica, novembre 04, 2012

I MORTI VOLANTI, ovvero la nostra, favolosa “festa dei morti”


di Agostino Spataro
Stamattina siamo andati al cimitero, a visitare i nostri morti. Non avendo defunti intimi colà residenti, le nostre visite si svolgono serenamente, quasi in allegria. Per me sono anche l’occasione per rivangare, guardando i nomi e le foto, le vicende del nostro paesino. I nostri morti sono nonni, zii e parenti piuttosto larghi, ai quali portiamo un fiore e accendiamo una candelina, per ravvivarne il ricordo, come vuole la tradizione. I nonni paterni, purtroppo, sono finiti nella fossa comune e non possiamo onorarli. Mi sarebbe tanto piaciuto conoscere mio nonno Calogero Spataro, amante dei viaggi e del buon vino.
Di lui non so nulla, poiché nessuno ne parla in famiglia, credo per vergogna. La vox populi racconta ch’era un viaggiatore indefesso e avventuroso. Partiva da Joppolo, con pochi soldi e con mezzi di fortuna, per lunghi viaggi in nave o in groppa ad un ronzino. Memorabile è rimasto il viaggio in Tunisia dove si recò per andare a comprare un… asino di una razza speciale ossia di quelli che lavorano tanto e mangiano poco. Non lo trovò e ritornò, dopo più di un mese, senza soldi e senz’asino. Insomma, un vero precursore della cooperazione siculo- araba! O l’altro, a cavallo, alla volta della Spagna interrotto per mancanza di viveri e mezzi a Civitavecchia da dove telegrafò alla famiglia per tranquillizzarla e chiedere soccorso. Il nome della cittadina laziale colpì talmente  la fantasia dei paesani che glielo appiopparono come “ngiuria”. E fu questo soprannome l’unica eredità che il nonno lasciò a figli e nipoti, quando mori alla bella età di 85 anni. Alla faccia dei suoi detrattori e critici che, in gran parte, lo precedettero nell’unico “viaggio” da quale non si torna… 
La sera precedente avevamo parlato di questa visita. Le avevo detto che se avesse portato i fiori ai nonni la notte successiva questi sarebbero venuti in volo a portarle tanti regalini. Bastava mettere le scarpine fuori della finestra. Le spiegai che i morti volano senza avere le ali, non entrano nelle case, si avvicinano alle finestre e depositano i  regalini soltanto dentro le scarpe dei bambini bravi. Monica appariva perplessa, non tanto sulla capacità di volare dei morti, quanto per le sue scarpette che, essendo piccole, non potevano contenere molti regalini. Mi propose: “perché non mettiamo anche gli stivali tuoi, della mamma che sono grandi?” Mi parve una buona idea e così facemmo. I morti volanti, i loro doni! Una favola bellissima che ancora resiste (per quanto ancora?), che rinsalda il legame fra i vivi e i morti e offre della morte una rappresentazione naturale, umana. Da ricordare non come un evento tragico ma con una festa, per l’appunto. A nessuno piace morire, tuttavia la  morte è ineluttabile e pertanto bisognerebbe imparare ad accoglierla senza terrore,  con naturalezza. Prima era così. Ho visto vecchi contadini in punto di morte, serenamente seduti al centro del letto, impartire alle mogli, ai figli e ai nipoti le ultime raccomandazioni a tutela della famiglia e della proprietà; inviare saluti ai parenti lontani; ricevere ambasciate e saluti da recapitare agli amici defunti che sicuramente avrebbero incontrato nel “viaggio”. Veri testamenti morali, quando non proprio  patrimoniali.
Oggi, temiamo, aborriamo la morte perché ci siamo troppo innamorati della vita! Perciò, desidero che Monica viva questa ricorrenza come una festa. Come  l’abbiamo vissuta noi, da bambini. Ricordo l’attesa dei morti volanti e le suggestioni che s’impadronivano della nostra mente: il fruscio, lieve, delle loro tuniche bianche, la ricerca della  scarpa giusta dove infilare il regalo corrispondente. “Ascolta, ascolta! Questa mi pare la zia Rosina. Speriamo che non sbagli scarpa! Era sbadata in vita figurarsi da morta”. In certe notti ventose, ci stringevamo intorno al tavolo, in cucina. Avevamo paura del vento, del suo atroce sibilo. Mia madre diceva che quello non era il vento, ma il brusio dei morti che ritornano in paese a cercare le case dove hanno vissuto, a portare i regali ai loro bambini. E l’indomani mattina presto tutti a guardare dentro le scarpe. Ne uscivano pupi di zucchero, melegrane dai chicchi dolcissimi e vermigli, taralli e biscotti al vino cotto, panareddri (panierini) impreziositi con semi di “diavolina” e con un uovo sodo al centro. Doni semplici confezionati in casa e frutti della nostra terra generosa. Soprattutto, c’era grande attesa per i “pupi di zuccaru”, una sorta di giocattolo commestibile, nelle sembianze di vigorosi paladini di Francia o di fieri cavalieri saraceni. Eroi-pupi, di zucchero o di latta, che ancora si contendono il nostro destino! I pupi c’entrano sempre nella tradizione siciliana, nella vita come nella festa dei morti. Da loro deriva anche un verbo “pupiddriari” usato per declinare gli effetti cinetici di un barbaglio agli occhi.
Il pupo è la chiave per aprire lo scrigno delle nostre finzioni, dei nostri camuffamenti, dei nostri trucchi. E’ una maschera, che indossiamo per la vita. Siamo tutti pupi, secondo Pirandello. Ancora lui! Non so quanto sia vero tale assunto che potremmo anche accettare solo se fossimo pupi liberi di vivere nel mondo del fantastico e schivare la pessima realtà che ci circonda. Ma nemmeno questa libertà ci è con- sentita: dietro o sopra i pupi c’è sempre un puparo che tira i fili. A Palermo sono maestri nel fabbricare pupi di zucchero e di altro materiale. Ne ho comprato uno per Monica. Rappresenta una principessa araba e il suo spavaldo cavaliere con elmo e sciabola. Domattina, lo troverà nella sua scarpina, sulla finestra…

(da “Monica, storia di un’infanzia ritrovata”, di Agostino Spataro- Edizioni “Il mio libro”, 2011)

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