domenica, novembre 11, 2012

Dedicato Alle Vittime Delle Mafie, Vito Pipitone di Marsala

Vito Pipitone
Ricordiamo VITO PIPITONE. nacque a Marsala il 27.03.1908; venne ucciso a Marsala in seguito ad un agguato mafioso in data 09 novembre 1947.
Il sindacalista aveva portato avanti diverse battaglie contro il latifondo ed era riuscito a strappare ai notabili vari feudi, tra cui alcuni in contrada fiocca, tra marsala e mazara. Di lui oggi rimane un circolo dei ds in contrada bambina e una via. Lasciò la moglie, Di Dia Filippa (allora di anni 37 – deceduta nel 1989) e quattro figli, Pietro (allora aveva 8 anni), Maria Pia (allora di anni 6), Antonio (allora di anni 4) e Melchiorre (allora di anni 2 – deceduto nel 1959).

La Regione Sicilia, al fine di onorare la memoria dei dirigenti politici e sindacali, uccisi dalla mafia nel periodo compreso tra il 1944 ed il 1960, ha approvato la Legge Regionale n.20 del 13 Settembre 1999. Il nome di Vito Pipitone è compreso in quella legge.
fonte:www.fondazionecs.org il wallpaper è stato realizzato da: dedicato alle vittime delle mafie.
La commemorazione di Vito Pipitone, sindacalista marsalese assassinato dalla mafia

62 anni fa, la sera dell’8 novembre 1947, Vito Pipitone, contadino, di anni 39, salutò Filippa e i quattro figli e uscì. A novembre, a metà pomeriggio, è già scuru e a quei tempi le campagne di Marsala non avevano illuminazione. La sua casa, con un pezzo di terreno attorno, era nella contrada di Marsala chiamata Ponte Fiumarella perché si estende nei pressi della fiumara del Sossio, che noi chiamiamo fiume ma che è un torrentello che si gonfia alcune volte all’anno, quando ci sono grandi piogge. Ancora lì, oggi, c’è la casa in cui abita uno dei suoi figli, Antonio, con la giovane figlia, Marianna, e la moglie.

Nel 1947 Antonio aveva 4 anni. Micciuni (Melchiorre), il suo fratellino di due anni, aveva avuto la paralisi infantile, aveva bisogno di tante cure ma non ce l’ha fatta, è morto a dodici anni. Pietro aveva 8 anni e Maria Pia 6. Antonio voleva uscire con il padre. Papà, vengo pure io dai nonni. Amunì, mi porti supra ‘a canna da bicicletta. No, è tardi e c’è friddu. E poi…vaiu e tornu. Vogghiu vèniri. No, ricciolino mio, stai a fare compagnia alla mamma. Arrivederci. Ci vediamo, nni videmu.

Antonio e i suoi fratelli non videro più papà. La mamma sì, lo rivide, una volta sola, l’indomani.

La casa dei genitori di Vito non era lontana, mancu un chilometro, scendendo per il leggerissimo declivio verso il mare, con la sua spiaggia sabbiosa orlata di dune. Ma il mare, allora come oggi, non è visibile, ché i giardini e le case ne ostacolano la vista. Soltanto, nelle notti di scirocco o di ponente arriva sordo, nel silenzio totale, l’arrotolarsi dell’ondata sulla sabbia.

Vito inforcò la bicicletta e si avviò per quelle trazzere sterrate ( che ora sono tutte strade asfaltate) segnate ai due lati da spessi e bassi muretti di pietre nude, accatastate con pazienza. L’unica luce è la lampadina della bicicletta ma Vito conosce bene la strada. Soltanto chi è del posto non si perde di notte fra queste trazzere e viòli ( viottoli).

La guerra è finita da soltanto due anni e mezzo in tutta Italia, dal maggio 1945. Ma in Sicilia è “terminata” più di quattro anni prima, da quel luglio 1943 quando le truppe alleate sbarcarono sulle coste meridionali dell’isola, dalle parti di Gela e il nemico ( le truppe tedesche e italiane ) dopo aver fatto un po’ di resistenza s’è squagliato. Ci sono rimasti di quel momento drammatico i “fortini” – igloo di cemento, sparsi lungo tutte le coste e che per una strana legge non possono essere distrutti. Naturalmente il mare non è tenuto a rispettare le leggi ed infatti da oltre mezzo secolo sta procedendo con pazienza e persistenza alla lenta demolizione del “fortino” che si trova proprio a fianco dello sbocco del Sossio.

Vito Pipitone probabilmente, mentre pedala verso la casa della madre, va pensando al lavoro che lo aspetta l’indomani. Nove novembre. Deve andare al feudo “Giudeo” per trattare la suddivisione delle terre incolte ai contadini. Non sarà facile. La proprietà non ne vuole sapere di rispettare il Decreto del gennaio 1945 del Governo di Ivanoe Bonomi. Un Governo nell’Italia occupata al Sud dagli angloamericani e al Nord dai tedeschi e dai loro alleati della Repubblica di Salò. La proprietà ha dato in gestione ( cioè a “gabella”) il proprio feudo appunto a dei gabelloti, che come quasi tutti i gabelloti di allora in Sicilia erano dei mafiosi. Vito continua a pedalare e gli tornano in mente le minacce ascoltate da questi mafiosi, che venivano chiamati “ i salemitani”.

Nell’ottobre del 1944 il ministro dell’agricoltura del Governo Bonomi, è il comunista Fausto Gullo. A quei tempi, nel Governo dell’Italia del Sud erano presenti i sei Partiti che contemporaneamente costituivano nel Centro e Nord d’Italia il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). Questi Partiti erano: PCI (comunisti) – PSIUP (socialisti) – DdL (democratici del lavoro) – Pd’A (azionisti) – DC ( democristiani) – PLI (liberali). Il ministro Gullo in quell’ottobre del ’44 emana la Legge n. 279 sulla “Concessione delle terre incolte e mal coltivate ai contadini riuniti in cooperative”. Questa Legge scuote la società siciliana dalle fondamenta. Infatti la stragrande maggioranza della popolazione è costituita da braccianti agricoli, mezzadri, contadini proprietari di piccoli e piccolissimi pezzi di terra con cui riescono a stento a campare. Nel giro di pochi mesi nascono centinaia di cooperative agricole in tutta la Sicilia. Le terre incolte e mal coltivate non sono “res nullius” ovvero “terre di nessuno” e quindi dello Stato ma estensioni di centinaia di ettari all’interno di grandi feudi, i cui proprietari non intendono assolutamente rispettare quella legge. Questi proprietari, ricchi borghesi ma soprattutto espressione della antica e parassitaria nobiltà siciliana si stanno muovendo su due fronti: il fronte politico, sostenendo il Movimento Indipendentista Siciliano, che fa accordi persino con il bandito Salvatore Giuliano ( e quindi il fronte politico diviene anche un fronte criminale, di scontro militare con lo Stato italiano e, nel concreto, con i carabinieri); poi c’è il fronte mafioso: i grandi proprietari affidano la conduzione dei loro feudi ai capimafia dei rispettivi territori, i quali non vanno tanto per il sottile nel contrastare la concessione delle terre incolte ai contadini.

Vito Pipitone non era soltanto un contadino, proprietario di un pezzetto di terra e di un mulo (in comproprietà con un fratello- allora possedere un mulo era come oggi un trattore); era un dirigente delle cooperative dei contadini riunite nella Confederterra, capo della Lega contadina di quella parte del territorio di Marsala chiamata oggi contrada Terrenove-Bambina. Aveva già partecipato ad altre occupazioni di terre incolte in alcuni feudi del territorio marsalese, per esempio del feudo “Rinazzo”.

Sono più di due anni ormai, siamo sul finire del 1947, che le leghe contadine, organizzate dai comunisti, dai socialisti e, in piccola parte, dai democristiani combattono la loro “battaglia” perché la “legge Gullo” venga applicata. Utilizzano le “occupazioni delle terre” come forme di pressione verso le Commissioni circondariali che dovrebbero decidere queste conncessioni e che vanno lentissime, frenate dalle pressioni dei grandi proprietari. Gli avversari della “legge Gullo” e dei contadini vanno crescendo di forza politica da quando, nel maggio 1947, La Democrazia cristiana ha chiuso il periodo postbellico della collaborazione con i comunisti ed i socialisti e ha dato vita al IV Governo De Gasperi ( DC –PSLI (socialdemocratici) PRI – PLI )

L’occupazione del feudo “Rinazzo” ce la racconta Gaspare Li Causi, comunista marsalese, docente di lettere e poi preside nelle scuole medie di Marsala ed ora ottantenne infaticabile nelle ricerche di storia locale. Allora aveva diciotto anni ed era già impegnato in politica.

“Partecipai – ricordo – all’occupazione dei feudi Rinazzo e Ciavolo. L’occupazione di Rinazzo si svolse in una giornata di forte vento di scirocco. Una lunga colonna di qualche migliaio di contadini salì a dorso di muli o su carri o in bicicletta, dopo essere partiti all’alba dalla contrada Paolini e dopo aver attraversato lo stradale polveroso e dissestato di Scacciaiazzo, su per una trazzera sul colle ove sorge il baglio di Rinazzo e qui entrò nell’atrio ‘aggiacatato’ recintato da antichi magazzini corrosi dal tempo. In questo atrio trovammo un po’ di riposo dopo la lunga marcia e ascoltammo i discorsi dell’onorevole Ignazio Adamo e di altri dirigenti sindacali. (…) Nei luoghi della occupazione i contadini approvarono ordini del giorno con i quali rivendicavano l’intensificazione del lavoro della Commissione Circondariale addetta alla assegnazione delle terre incolte alle cooperative, l’incarico alle leghe contadine per l’assunzione della manodopera bracciantile disoccupata, la stipula di un nuovo contratto per i braccianti agricoli.” ( Gaspare Li Causi, Il 1947:l’anno di inizio della guerra fredda, ed. AU.SER , Marsala , 2002 ).

Antonio, il figlio di Vito, ritornando su quell’ultimo momento in cui vide il padre, riflette ad alta voce come se lo dicesse a se stesso più che agli altri “ forse è stato così deciso nel rifiutare di prendermi con sé, sulla bicicletta, perché temeva quello che poi è avvenuto. Fossi stato con lui sarei morto anch’io”. Una cosa è certa, che il 1947 è stato l’anno in cui furono ammazzati dalla mafia il più gran numero di sindacalisti contadini. Il primo maggio dei ’47 era avvenuta la strage di Portella della Ginestra. Si era sparato su contadini che non stavano occupando terre ma festeggiavano allegramente la festa del lavoro. 11 assassinati e 27 feriti. Tra gli ammazzati, un bambino ed una bambina di 7 anni, un ragazzo di 12 e una ragazza di 15 anni. Non gli fu concesso di vivere come invece a me, che sto raccontando questa storia, ed a voi, che mi state ascoltando. Perché? Perché sopportiamo di vivere in una società in cui vi sono forze che per dominare e controllare il potere e l’economia non esitano ad usare anche la strage, lo sparare indiscriminato sulla gente ed in mezzo alla gente, le bombe. E non sono soltanto avvenimenti di sessanta anni fa. Ricordate le bombe a Firenze di circa 15 anni fa, oppure, soltanto due anni fa, la strage di immigrati africani fatta dal clan dei casalesi a Castel Volturno, in Campania? E se non ammazzano ricattano e terrorizzano. Non è una “società”, così. Una società si costituisce tra pari. Se ci sono alcuni che possono infischiarsene delle leggi, che vogliono vivere sul lavoro e le ricchezze prodotte dagli altri, che si impongono con la forza o delle armi od anche del controllo fraudolento e ricattatorio dei meccanismi della democrazia ( voglio dire “controllo dei voti”), allora, questa non è una società è un dominio.

Vito certamente sapeva che qualche mese prima, a giugno, tre dirigenti sindacali delle leghe contadine erano stati ammazzati a Partinico, sapeva che cinque giorni prima, a S. Giuseppe Jato, era stato assassinato dalla mafia , il suo compagno sindacalista Giuseppe Caiola. Avrà pensato che se veramente volevano bloccare la divisione delle terre del “Giudeo”, una delle azioni più facili era quella di ammazzarlo. Non voleva mettere a rischio la propria famiglia, tanto valeva esporsi, rendersi preda facile, forse potevano limitarsi ad un pestaggio, forse non sarebbe successo niente e l’indomani il confronto sarebbe stato lì, in mezzo alla campagna che va verso Ma ara. Dopotutto ormai il Governo rendeva sempre più difficile l’azione delle cooperative contadine, si capiva bene che il vento politico soffiava in un’altra direzione, che i socialcomunisti che dirigevano le Camere del Lavoro e la gran parte delle Leghe contadine erano non più al governo ma all’opposizione. Anche quei democristiani che organizzavano le cooperative cattoliche e con cui lavorava assieme nella Federterra erano in minoranza ed ai margini dentro il loro stesso partito. Noi non sappiamo veramente cosa pensasse Vito mentre pedalava lentamente lungo la trazzera ma sappiamo che non era un ingenuo né uno sprovveduto. Sapeva che quel buio dentro il quale spingeva la piccola luce della bici era vivo di pericolo, soffiava minaccia.

Antonio racconta. Sua sorella Maria Pia ascolta attenta, in un lungo silenzio.

“…ma dopo tanti baci e carezze, lui è andato con la sua bicicletta dai suoi genitori. Quella sera doveva parlare con i suoi amici per andare a fare degli scioperi. Dopo poche ore sono passati i due fratelli, che erano di passaggio, e la mamma cià detto tuo fratello è andato dai genitori. Mio padre portava tanto ritardo quella maledetta sera, la mamma cominciava a stare in pensiero. Non c’erano macchine e nemmeno biciclette, né luci e nemmeno telefono. La mamma si è messa a piangere, “come dobbiamo fare?”. Noi tutti assieme con la mamma ci siamo messi in un angolo a pregare che papà tornasse presto. La mamma cominciò a piangere per prima ed anche noi figli. Ma la mamma capì qualcosa perché il papà era segretario del partito comunista della Federterra. Anche, la mamma capì che in questi periodi ci sono stati tanti vittimi di capolega. Già la paura c’era per noi, ma la mamma faceva tanto coraggio a noi figli. Quella sera non c’era nessuno che portava notizie di papà. La mamma ogni tanto sentiva un rumore alla porta. La mamma spegne la luce, che era un lume a petrolio e noi tutti fratelli e sorella e mamma ci mettiamo in un angolo a piangere”

La lotta, a quei tempi, tra la mafia è lo Stato era del tutto impari. Gli angloamericani restituirono formalmente il governo della Sicilia al Governo italiano l’11 febbraio del 1944, quando c’era ancora il Governo Badoglio, nato dopo la caduta del fascismo, il 25 luglio del ’43. Nei fatti il controllo del territorio rimase nelle mani dei vincitori, che lo delegarono alla mafia. Era la scelta più facile; e poi, i capimafia erano stati perseguitati dal fascismo, incarcerati o latitanti; insomma potevano essere percepiti come antifascisti. Così don Calogero Vizzini divenne sindaco di Villalba, Genco Russo sindaco di Mussomeli. C’era miseria in Sicilia, c’era fame, era percorsa da gruppi di banditi. Le armi circolavano in grande abbondanza.

Il governo italiano non aveva esercito. L’ordine avrebbe dovuto essere garantito soltanto dai carabinieri, pochi, mal pagati e mal armati. Il colonnello Paolantonio, riferiva, dinanzi alla Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla mafia, circa venti anni dopo: “ L’arma dei carabinieri non era molto attrezzata. Personale insufficiente, pagliericci per dormire. I primi mitra li abbiamo avuti sequestrandoli alla banda Giuliano. Ricordo che a Montelepre c’erano, all’inizio, dodici carabinieri che disponevano di sei paia di scarpe: uscivano in servizio calzando a turno le sei paia di scarpe.” E sul giornale catanese “La Sicilia” del 28 maggio 1945 il direttore scriveva “ ( il bandito) è fornito di moderne armi portatili, e la sua banda non manca di armi pesanti…Lo immaginate voi un agente dell’ordine, a piedi, incaricato di stare alle calcagne, attraverso le insidie naturali della campagna, di un bandito a cavallo? “. E il commissario di p.s. Carlo Drago riferisce alla Commissione parlamentare: “ All’epoca c’erano guardie senza armi. Dei carabinieri, chi aveva solo la pistola, chi solo il fucile…e morivano di fame. Si doveva pensare ad approvviggionarli. I mezzi si dovevano requisire ai cittadini, perché lo Stato non era in condizione di fornirne.” La mafia prese il controllo del territorio e, nei fatti, lo Stato delegò alla mafia la lotta al banditismo. La guerra e le estreme difficoltà del primo dopoguerra possono in parte spiegare le difficoltà in cui versavano le forze dell’ordine in quegli anni. Ciò che meraviglia è che oggi, 2009, in condizioni ben diverse, lo Stato italiano faccia mancare risorse fondamentali alle forze dell’ordine, che arrivano addirittura a manifestare con pubblici cortei tali difficoltà. Proprio mentre l’influenza delle associazioni criminali mafiose si diffonde dal Sud al Nord per tutto il territorio della Penisola, come metastasi di un tumore. Ma torniamo alla vicenda che stiamo ripercorrendo in questo breve incontro.

Vito ricevette un colpo di fucile frontale, alla pancia. Fu lasciato lì agonizzante sulla stradella. Alcuni che abitavano vicino, avendo sentito i colpi di fucile, dopo un po’ uscirono di casa, andarono a vedere. Vito fu portato all’ospedale di Marsala. La famiglia per tutta la notte non seppe niente. Continua il racconto di Antonio.

“Nella prima mattinata è venuta una persona che cercava papà; ma la mamma non lo conosceva. Gli ha detto, mio marito non c’è. Noi siamo rimasti tutti impauriti di questa persona. Poco dopo sono venuti i carabinieri e hanno detto che papà stava poco bene e che si trovava all’ospedale. La mamma è andata con i carabinieri a vedere papà. Mio padre era ferito allo stomaco, parlava con la mamma ma io con i miei fratelli e sorella non l’abbiamo visto più. Mio padre è stato circa 24 ore in ospedale e dopo l’hanno portato nella chiesa madre di Marsala. Il parroco non voleva accettare in chiesa mio padre perché era un comunista, in quel periodo non poteva andare in chiesa. Ma con la forza della politica di papà e con l’aiuto del sindaco del comune di Marsala abbiamo ottenuto. Tutta la notte in chiesa fino all’indomani pomeriggio. Al funerale ci sono state più di cinquemila persone”.

Il processo non arrivò a nessuna conclusione. Fu un processo contro ignoti ed alla fine venne archiviato

Dieci giorni dopo l’assassinio di Vito, in Consiglio Comunale pronunciò il discorso commemorativo Leonardo de Vita, docente di latino e greco nel liceo classico di Marsala e militante del partito comunista. Il consigliere comunale del partito socialista, l’avvocato Francesco Pizzo, propose un ordine del giorno che suscitò un nutrito dibattito ed alla fine fu approvato a maggioranza. Anche sui morti prevalevano gli equilibrismi politici. Il partito socialista allora era fortemente impegnato nel sostegno dei lavoratori e contadini e tale rimase più o meno fino agli inizi degli anni Ottanta, quando la gestione craxiana del partito, rappresentata a Marsala proprio dal figlio di Francesco Pizzo, portò alla dissoluzione della tradizione e della cultura socialista in Italia. Gaspare Li Causi così racconta quella seduta del Consiglio comunale: “ …un ordine del giorno che, nel considerare l’uccisione di Pipitone una continuazione delittuosa della strage di Portella della Ginestra mirante ‘ a instaurare, violando le leggi e contro le leggi medesime, un regime di terrore in danno delle classi lavoratrici’, invitava il Consiglio a elevare ‘ la sua protesta e a invitare il Governo, le autorità tutte regionali, provinciali e di pubblica sicurezza, perché venissero scoperti i responsabili e puniti come per legge, a unirsi al compiano della cittadinanza e a partecipare al cordoglio della famiglia’ Al momento della votazione dell’ordine del giorno…si manifestò una decisa riserva del PRI con una dichiarazione del repubblicano professor Diego Giacalone, il quale ne chiese la modifica, in quanto – a parere del gruppo del PRI – non si aveva ‘la certezza del movente del delitto’.L’ordine del giorno “Pizzo” fu approvato con diciannove voti favorevoli, due contrari e dodici astenuti (il gruppo del PRI)” . Vorrei ricordare che allora il Partito repubblicano, oltre ad annoverare tra i suoi esponenti locali l’on. Francesco De Vita impegnato in quel 1947 nei lavori della Assemblea Costituente, vedeva tra i suoi militanti più di spicco l’avv. Salvatore Grillo, che in seguito passerà nella Democrazia cristiana e che, allorché deciderà di concludere la sua attività politica, trasmetterà la sua rappresentanza democristiana al figlio Massimo.

Antonio, circa mezzo secolo dopo l’assassinio del padre, subì un ictus che gli provocò difficoltà di memoria e la perdita della parola. Racconta Antonio che era in ospedale, muto e sperso. Ed ecco che viene a trovarlo suo padre. Vito è lì dinanzi a lui, più giovane del figlio. Antonio gli rivolge la parola e suo padre gli risponde. Antonio parla e parla, racconta tante cose a suo padre, come nel posto dove gli hanno sparato il piccolo segno che fu messo allora sia scomparso e come nessuno lo ricordi più; e gli racconta della sua vita di bambino senza padre e dei cento lavori che ha fatto fin da piccolo per aiutare la famiglia, il ciabattino e anche il cucire e il ricamare assieme alla madre. E che a sei anni andò a lavorare nella cava e che lo calavano attaccato ad una corda giù sul fondo e lì “ncurciava ‘u cantuni” che veniva tirato su. E poi andò in un’altra cava e non potè continuare ad andare a scuola ed e rimasto con la seconda elementare. Però, quando gli pagarono la prima settimana di lavoro andò a comprarne pasta, i coppi da cinque chili, da portare a casa. E così, quell’incontro con il padre lo guarì dalla perdita della parola. E da allora parla, partecipa agli incontri organizzati da “Libera”, chiede un cippo, un monumento che comunque evidenzi che chi muore difendendo i più deboli non viene dimenticato, anche se i tribunali archiviano. Ma la memoria può, se vuole, non archiviare mai.

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