sabato, ottobre 22, 2022

IL FILM. Il senso dell’ineluttabile nella vita di Pio La Torre: “Adesso tocca a noi…”


di Angelo Carotenuto

Era un venerdì. La mattina che la mafia ammazzò Pio La Torre, suo figlio Franco era appena arrivato in redazione. Aveva vent’anni, lavorava a Roma, a Radio Blu. 
Era stata rilevata dal Pci, trasmettevano dal quartiere di Monte Mario, si erano fatti un pubblico aprendo un filo diretto con il sindaco Petroselli durante il suo mandato. Franco sentì squillare il telefono e quando rispose, seppe da una voce quel che era successo a Palermo. Riattaccò, riprese le chiavi e se ne tornò a casa, senza essere visto da nessuno. 


Adesso che sono passati quarant’anni, il suo racconto raggela finanche più di prima, per quel senso di solitudine presente intorno al padre così ben documentato da Ora tocca a noi, il documentario di Walter Veltroni prodotto da Gianluca Curti e Santo Versace per Minerva Pictures, insieme a Rai Documentari e Luce Cinecittà, con il contributo di Rai Teche, presentato in anteprima ieri alla Festa del cinema di Roma, annunciato per il mese di dicembre su Rai3. 
Enrico Berlinguer, segretario nazionale del Pci, si trovava dagli operai dei cantieri navali, riuniti a convegno nella sede della direzione del partito. Luciano Lama, segretario della Cgil, stava limando il suo intervento per il giorno dopo, il discorso al Primo Maggio dei lavoratori. Il titolo del film riprende la frase che proprio La Torre consegnò al suo vecchio amico Emanuele Macaluso, la prova di una consapevolezza, Cosa Nostra stava arrivando. Al microfono di Marrazzo, il leader del Pci aveva spiegato che andava colpita nella tasca, nel patrimonio, con la confisca dei beni. Ecco perché il suo nome avrebbe allungato la lista delle vittime. Due anni prima avevano ammazzato Piersanti Mattarella, e suo fratello Sergio dal Quirinale sottolinea come la Legge che porta anche il nome di La Torre «contiene elementi che si sono dimostrati essenziali per colpire e sconfiggere la mafia». 
Veltroni cuce tutti i grani di questo rosario nero, i dolori privati e pubblici, adoperando materiale d’archivio, testimonianze accantonate, come quella di Giuseppina Zacco, la moglie di La Torre, con il ricordo di quando Pio puzzava di carcere, il giorno che uscì di cella, negli Anni 50. C’è una intervista inedita a Emanuele Macaluso di Giuseppe Tornatore, alcune scene di finzione per l’infanzia e la giovinezza di La Torre. Tutto serve a raccontare l’irrimediabile, quasi un senso di ineluttabilità, avvertito dopo il rientro da Roma e l’impegno in Parlamento,prima dalla parte dei braccianti, poi in Commissione antimafia. 
La morte violenta è una compagna di viaggio, qualche volta esorcizzata, altre volte guardata negli occhi. L’ex capo della Squadra Mobile di Palermo, Francesco Accordino, che racconta come con Ninni Cassarà riuscissero perfino a scherzare su quale dei due nomi stesse meglio accanto a quelli già scolpiti sulle lapidi. C’è il sindaco Vito Ciancimino che segue e spia le persone che lavorano con La Torre, per far sapere di sapere. « Possono ucciderci quando vogliono » , replicherà lui con le mani nei capelli. 
Giuseppe Tornatore era all’epoca il figlio 26enne di un sindacalista, reduce da un’esperienza in consiglio comunale a Bagheria. Nel film racconta che il ritorno di La Torre a Palermo era stato giudicato dai militanti dell’epoca come un segno di attenzione da parte del Pci nazionale verso le questioni irrisolte della Sicilia. Inoltre c’era da battersi contro la costruzione della base missilistica della Nato a Comiso. Per il contesto dal quale veniva e per la Sicilia del suo tempo, dice Tornatore, « La Torre sarebbe potuto diventare o un prete o un mafioso. Invece fu un politico, fu un comunista. Per molto tempo — attacca il regista premio Oscar — essere siciliano ha voluto dire essere mafioso. Ma i più grandi rappresentanti dell’antimafia sono siciliani. Questo è. Questa è la verità». 
L’altra grande figura del film è quella di Rosario Di Salvo, l’autista della Fiat 131. Aveva lasciato anni addietro l’apparato di partito per dedicarsi a un altro lavoro, ma era rientrato per stare accanto a La Torre quando aveva saputo che nessuno voleva quell’incarico, troppo pericoloso, due persone avevano detto di no. Tiziana, sua figlia, oggi è una docente universitaria. Con delicatezza dice di dedicare i suoi studi alla vita delle stelle dopo la loro morte, cosa accade ai loro corpi quando si spengono. Racconta a Veltroni che quell’ultima mattina suo padre l’accompagnò a scuola, sembrava spazientito, lei gli chiese di poterlo seguire al lavoro, come ogni tanto faceva. Per molti anni, Tiziana ha sognato di esserci andata per davvero in quella macchina crivellata di colpi, di essersi chiusa nel portabagagli, di aver fatto qualcosa per cambiare il corso delle ore e dei minuti del 30 aprile 1982. Adesso, dice, papà non lo sogna più. 

La Repubblica Palermo, 22/10/22

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