giovedì, ottobre 13, 2022

Tre verità per un cadavere ingombrante. La morte di Salvatore Giuliano è stata ammantata di mistero. Ma c’è una nuova testimonia


LINO BUSCEMI

Sulla tragica fine del bandito Salvatore Giuliano, avvenuta 72 anni fa, circolano, ormai tre, o forse più, differenti versioni. Con la prima, la più falsa, accreditata a caldo dai carabinieri del Comando forze repressione banditismo (Cfrb), guidati dal chiacchierato colonnello Ugo Luca, ed avallata dal ministro dell’Interno Mario Scelba, si narra che «il re di Montelepre» sia stato ucciso, in seguito ad un conflitto a fuoco con i militari, nel cortile Mannone di Castelvetrano, alle ore 3,30 del 5 luglio 1950. 

A storcere per primi il naso, su quella che si rivelerà una «sceneggiata», furono alcuni carabinieri scontenti quali il colonnello Giacinto Paolantonio e il maresciallo Giovanni Lo Bianco, e il giornalista dell’Europeo Tommaso Besozzi, che scrisse un memorabile reportage dal titolo: «Di sicuro c’è solo che è morto». Besozzi contestò la versione ufficiale perchè non lo convincevano l’illogica posizione del corpo di Giuliano (lo scorso 22 settembre ricorrevano i cento anni dalla nascita), la presenza in un fianco di fori tipici dei colpi sparati a bruciapelo ed altro. Insomma, per Besozzi , il bandito era stato ucciso altrove e non dai militari del Cfrb. È Nicola Adelfi, inviato dello stesso settimanale, che completa lo scoop ipotizzando una seconda versione.

Scrisse infatti che Turiddu «fu ucciso nel sonno da Gaspare Pisciotta» la sera prima in casa dell’avvocaticchio Gregorio Di Maria (e non De Maria), ubicata nel cortile Mannone. Il Di Maria, morto a 98 anni nel 2010, su ciò che accadde quella calda notte nella sua abitazione ha sempre detto che: «Mezz’ora dopo mezzanotte del 4 luglio (quindi il 5 luglio ndr) arrivò Pisciotta e, alle tre e mezza o giù di lì, uccise Giuliano. Dormivo nella stanza vicina e ho sentito due spari. Pisciotta scappò passandomi davanti al letto. Mi alzai e vidi Turiddu morto nel letto. Improvvisamente giunse il capitano Perenze con due carabinieri. Presero il cadavere, lo vestirono alla meglio e lo portarono giù nel cortile. Mi intimarono di non muovermi. Dopo alcuni secondi di silenzio, sentii ripetuti colpi di mitra».

Dieci anni dopo le due versioni furono immortalate nel film sul bandito del regista Francesco Rosi, il quale, fra lo sconcerto generale, ebbe il merito di disintegrare l’inattendibile narrazione del colonnello Luca. La terza versione sulla fine di Turiddu svela in termini più realistici come egli venne catturato e ucciso. La mafia monrealese (in combutta sia con alcuni “traditori” della banda che con il Cfrb di Luca) gli tese un tranello all’interno di Villa Carolina, sita nei pressi del cimitero della città normanna. Il racconto, pur poggiando su fatti certi e testimonianze, per un lungo lasso di tempo ha avuto scarso credito. Forse perché, a parlarne sono stati in prevalenza i parenti stretti del bandito con libri e interviste. Nondimeno, la villa è stata sempre avvolta da un alone d’inquietante mistero. Lambendo, anche, l’allora arcivescovo di Monreale, Ernesto Filippi, che fu accusato, pur non essendo la location di proprietà della Curia, di «aver tollerato» in quell’immobile «strani incontri tra banditi, mafiosi e rappresentanti delle forze dell’ordine» (come riporta “La Chiesa sotto accusa” di Francesco M. Stabile, ed. Il Pozzo di Giacobbe pag.334). Da almeno un decennio, però, la musica è cambiata. Nel 2012 l’editore Dario Flaccovio ha pubblicato “Sicilia nella Storia”, in tre volumi, finanziata dalla presidenza della Regione siciliana. L’autore è il sacerdote Michele Crociata, di Castellammare del Golfo. È la prima volta, dopo tanti anni, che un testo di storia, scritto da un non parente, descrive, con dovizia di particolari, ciò che venne ordito nella notte del 3 luglio ‘50. Secondo Crociata , il bandito non morì a Castelvetrano ma, appunto, nella tristemente nota “Villa Carolina”. Ad ucciderlo non fu Pisciotta ma il bandito Nunzio Badalamenti: «…mentre Turiddu consumava un pasto frugale in una stanza semibuia, Gaspare Pisciotta, coadiuvato nell’ombra dal Badalamenti, che i carabinieri stessi gli avevano dato come guardaspalle, riuscì a versare un forte sonnifero nel bicchiere di vino che il capo .. bevve. (…) Poi si mise a letto e dormì profondamente». Quindi lo legarono. Pisciotta, lasciato Badalamenti a custodia del morituro, si allontanò per riferire ai capimafia Minasola e Miceli, pronti ad avvertire gli ufficiali Luca e Perenze. «Il Badalamenti, però, rimasto solo, nella speranza di potere ricevere almeno parte della taglia,… fece fuoco tre volte su Giuliano, che passò dal sonno alla morte». L’imprevisto atto di Badalamenti (costui era forse recluso all’Ucciardone, ma a quanto pare i servizi “l’avevano fatto segretamente evadere, incaricandolo del delitto …”) provocò «un grande terrore» nei due capimafia e in Pisciotta. A notte fonda- precisa Crociata- Luca e Perenze, arrivarono nella villa e pianificarono cosa fare per «attribuire allo Stato, e non certamente alla mafia, la vittoria finale su Salvatore Giuliano…».

Il cadavere venne rivestito alla rinfusa per essere trasportato a Castelvetrano dove ebbe luogo il finto conflitto a fuoco. Dove ha attinto le notizie il professor Crociata? «Mi sono basato- dichiara lo storico- sulle testimonianze di persone che all’atto della stesura del libro erano ancora in vita, compresa la sorella di Gaspare Pisciotta».

Intanto, le “rivelazioni” sembrano non esaurirsi mai. Giunge come un fulmine a ciel sereno, una testimonianza, raccolta nei giorni scorsi da chi scrive e rilasciata dal noto giornalista, scrittore e cultore di tradizioni popolari, Gaetano Basile. Un nitido ricordo di ciò che egli vide e sentì la sera del 3 luglio. Con la verve di sempre, malgrado i suoi 85 anni, ha raccontato davanti alle telecamere, che nell’estate del 1950 era un ragazzo di 13 anni e trascorse le vacanze, con la sua famiglia, in una villetta del villaggio Santa Rosalia, a poca distanza da villa Carolina. Quella tarda sera, lui e tutti gli altri, udirono prima uno sparo seguito, subito, da altri due colpi. Tranquillizzati i congiunti, il padre di Basile decise di andare a vedere con il figlio e qualche parente, da dove provenissero gli spari. Giunsero, in silenzio, sul ciglio della strada, a circa venti metri dalla villa, e videro luci accese e presenza di persone all’interno. Di botto, qualcuno aprì una porticina per consentire l’uscita di tre persone che trasportavano un sacco «che doveva essere pesante». Il consistente involucro fu adagiato nei sedili posteriori di una Fiat 1100. Due uomini si misero in macchina, mentre il terzo rincasò. L’autovettura «partì quasi sgommando in direzione di Pioppo». Basile sottolinea che «nel sacco c’era di sicuro un morto senza bisogno di fare l’autopsia e che i tre colpi che avevamo udito erano tre colpi di pistola, come capimmo tutti. C’era una vittima, ma non si sapeva chi fosse».

Due giorni dopo, cioè la mattina del 5 luglio, intorno alle 10,30, il papà di Basile ricevette l’amichevole visita, nella fonderia di Corso dei Mille, a Palermo, di un suo ex commilitone, un certo signor Cataldo, abitante nel cortile Mannone a Castelvetrano, per avere un consiglio. «Mio padre – dice Basile- domandò se io potevo assistere al colloquio. Il Cataldo acconsentì e raccontò che nella appena trascorsa notte, fra le due e le tre, era stato svegliato dal rumore di scarpe chiodate. Attraverso la persiana della finestra vide con la moglie che alcuni militari stavano posizionando un morto. Poi si udirono ripetuti colpi di mitragliatrice e, per evitare di beccarsi qualche proiettile, sia lui che la moglie si abbassarono. Frattanto qualcuno gridò: hanno ammazzato a Giuliano. Terrorizzato, all’alba decise di recarsi a Palermo per domandare a mio padre il da farsi. La risposta fu secca : “ fatti i c…. tuoi”».

Al suo attento genitore, però, vennero i brividi nel pensare che quel grosso “involucro”, trasportato in fretta sotto il suo muto sguardo, contenesse il cadavere di Giuliano destinato ad essere nuovamente violato e crivellato, per indicibili interessi e in obbedienza di una assurda «ragion di Stato». Un po’ quello che da sempre ha inquietato Gaetano Basile che, prezioso involontario testimone della fine del fuorilegge, ha subìto il disinteresse di coloro che avrebbero dovuto ascoltarlo. L’ha fatto questo giornale, impegnato a far luce su una pagina assai controversa della storia dell’ultimo dopoguerra siciliano. A tutela della memoria storica, senza la quale errori ed orrori sono destinati a ripetersi.

GdS, 13/10/2022

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