mercoledì, ottobre 19, 2022

I VERBALI SULLE STRAGI DEL 1993. I pentiti calabresi rivelano: “Bagarella voleva far saltare il Duomo di Milano”

La strage di via dei Grorgofili a Firenze 

di Alessia Candito

Di «traditore» ha parlato il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, quando da imputato a Reggio Calabria ha rotto un silenzio durato decenni per puntare il dito contro Silvio Berlusconi. Di «tradimento» ha parlato Antonio Marchese, cognato di Leoluca Bagarella. 

Era il ‘96 all’Asinara, l’eco delle stragi si era spenta da poco, e in carcere c’era anche il pentito calabrese Gerardo D’Urzo. È lui — emerge dai verbali di recente depositati agli atti del processo ‘Ndrangheta stragista — che ascolta e riferisce poi ai magistrati che «Marchese voleva sapere dal Mangano, da poco in carcere, se “Luchino” (Bagarella ndr) gli avesse confidato se si sentiva tradito insieme ai fratelli Graviano». Ma soprattutto, specifica il collaboratore, che «Marcello Dell’Utri non aveva mantenuto i patti e il Bagarella gli era passato per la testa di far saltare il Duomo di Milano». 


Che si sappia, l’imponente cattedrale della Madunina non è mai entrata nella lista che, secondo le ricostruzioni, il faccendiere nero, trafficante d’arte e killer di ‘Ndrangheta, Paolo Bellini, di recente condannato anche per la strage di Bologna, avrebbe spifferato all’orecchio di Nino Gioè. Ma è l’ennesima prova che di quei patti — che Silvio Berlusconi ha sempre negato, ma tanti pentiti hanno evocato — nella prima metà degli anni Novanta si discuteva parecchio. Tasselli che a Reggio Calabria stanno mettendo insieme. 
È lì che Giuseppe Graviano ha incassato il settimo ergastolo nel processo che ha provato la partecipazione della ‘Ndrangheta alla stagione degli attentati continentali del ‘93. È lì che risuonano le voci di nuovi collaboratori che chiamano in causa Silvio Berlusconi, per la Corte d’Assise di primo grado il prescelto a suon di bombe dalle mafie che all’inizio degli anni Novanta, mentre democristiani e socialisti si accartocciavano, cercavano «nuovi e più affidabili referenti politici disposti a scendere a patti». Una storia, ha dimostrato l’inchiesta ‘Ndrangheta stragista coordinata dal procuratore aggiunto Lombardo, non solo siciliana, ma anche molto calabrese. 
Non lo dice un unico superpentito. Nella ‘Ndrangheta non esiste. La struttura criminale è diversa, altra rispetto alla mafia siciliana la sua evoluzione. Ci sono collaboratori, a partire da D’Urzo, che hanno raccontato nel tempo — spesso senza che neanche le loro dichiarazioni fossero valorizzate — verità parziali che oggi diventano tasselli di un mosaico coerente. «Giuseppe Mancuso mi riferì che c’era stato un incontro con i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, se volevano aderire alle stragi di Roma, Firenze e Milano». Il fine, hanno detto altri collaboratori, era comune, così come l’interlocutore. 
Imprenditoriale e finanziario, ancor prima che politico. Con Berlusconi — è emerso a Reggio Calabria — Cosa Nostra e ‘Ndrangheta facevano affari anche prima della stagione delle stragi. Di «20 miliardi di lire» arrivati dalle famiglie della mafia palermitana a Berlusconi, poi finiti «nell’immobiliare, nelle televisioni, in tutto» ha parlato Graviano a Reggio Calabria. Ed erano gli stessi anni in cui l’impero Fininvest veniva costruito comprando antenne al “supermarket” del clan Piromalli, grazie a un antennista diventato improvvisamente pezzo grosso di Publitalia. «Altri interessi erano nel settore ospedaliero» , ha anticipato il pentito Fondacaro. Ma sui dettagli ci sono ancora vistosi omissis. 

La Repubblica Palermo, 19/10/22

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