giovedì, ottobre 27, 2022

Enrico Mattei, un innovatore fermato anche grazie ai boss

Paquale Hamel

Il 27 ottobre del 1962, alle 19,08 una fiammata illuminò il cielo sopra Bescapé, un piccolo comune in provincia di Pavia, e poco dopo si schiantava al suolo un piccolo bireattore Morane Salnier 760 dell’Agip, provocando la morte del pilota, Imerio Bertuzzi, del giornalista americano William McHale e di Enrico Mattei, comandante partigiano che nel 1953 aveva promosso la costituzione dell’Eni (Ente nazionale idrocarburi). 

Enrico Mattei è stato uno dei personaggi più controversi che, nel dopoguerra, aveva fortemente influenzato la politica economica del Paese spingendo, e lo ha opportunamente ricordato la presidente Meloni presentando il suo governo alla Camera, verso l’obiettivo, oggi di grande attualità in seguito alla crisi generata dalla guerra in Ucraina, dell’«autonomia energetica». L’inchiesta che seguì al presunto incidente, condotta «in modo frettoloso e acritico dai magistrati dell’epoca» – così scrive il magistrato Leonardo Agueci nell’introduzione al libro di Aldo Ferrara «Enrico Mattei. Il visionario» - fu chiusa con un’archiviazione accettando l’idea che si fosse trattato solo di un «tragico incidente» dovuto, insinuò allora il procuratore Eduardo Santachiara «ad eccessivo affaticamento del pilota».

Trent’anni più tardi, grazie all’impegno della Procura della Repubblica di Pavia, guidata dal procuratore Vincenzo Calia, che riaprì il relativo fascicolo queste conclusioni venivano rimesse in discussione pervenendo alla più realistica ipotesi che, nel cielo di Bescapé, si fosse consumato un attentato e che l’aereo sul quale viaggiava il presidente dell’Eni, come peraltro si era fin dall’inizio sospettato, fosse esploso in volo a causa di una bomba collocata all’interno della carlinga. Un sabotaggio, dunque, il cui obiettivo probabilmente era proprio Enrico Mattei. Di quel sabotaggio sia i mandanti che i relativi esecutori, nonostante gli sforzi compiuti per pervenire alla verità, sono tuttavia finora rimasti sconosciuti. D’altra parte, era cosa abbastanza nota che Mattei avesse molti nemici interni ed esterni. Molti di questi si annidavano fra quanti non accettavano la deriva statalista che stava contraddistinguendo nel dopoguerra la ricostruzione del Paese, e degli statalisti proprio Mattei, che aveva una grossa influenza sui politici del tempo, appariva l’alfiere più autorevole. Ma i nemici di Mattei erano soprattutto esterni, le sue iniziative, soprattutto nel mondo arabo e i suoi rapporti con esponenti dell’Unione Sovietica, spesso condotte con grande spregiudicatezza, si può bene dire che avessero «rotto le uova nel paniere» a chi non sopportava di avere pericolosi concorrenti capaci di destabilizzare un mercato, quello degli idrocarburi e del gas, che aveva consentito di realizzare fortune enormi. Il cartello di multinazionali petrolifere (americane, francesi, inglesi e olandesi), le famose «sette sorelle» – così le ebbe a definire lo stesso Mattei -che fino ad allora aveva egemonizzato il relativo mercato, saccheggiando in modo indecoroso le risorse di paesi nei quali era in corso la decolonizzazione non accettava infatti quella che considerava, a torto o a ragione, una concorrenza sleale. Per questo motivo Mattei non era sicuramente amato tanto da venire assimilato addirittura ad un «pericoloso comunista» che non faceva sicuramente gli interessi dell’Occidente. Non sorprende dunque che in un gustoso profilo pubblicato nell’ottobre 1962, qualche giorno prima della morte, sul New York Times lo si degradasse ad «un barone imbroglione del diciannovesimo secolo». Che fosse in pericolo Mattei, era pienamente consapevole, già l’OAS (Organisation armée secrète), molto attiva in Algeria per contrastare il Fronte di liberazione nazionale, in combutta con i servizi francesi, non si era fatta scrupolo di additarlo come un probabile obiettivo di un’azione terroristica mentre altre minacce gli erano giunte proprio dai suoi concorrenti. Non è un caso che, considerato il clima pesante che si addensava attorno alla sua figura, Mattei non si fidasse nemmeno della scorta che gli avrebbe offerto la sicurezza nazionale e che, invece, si fosse dotato di una scorta personale della quale faceva parte un ex suo compagno di guerra partigiana.

Fatto sta che, nonostante le precauzioni, non riuscì a sfuggire ai suoi nemici. Nelle indagini che seguirono confortate dalle dichiarazioni dei pentiti, si è venuto anche a sapere che un ruolo importante nell’eliminazione di Mattei, lo ebbe sicuramente la mafia che la funzione di agente di supporto e come diretta esecutrice dell’attentato. Peraltro, l’aereo era partito dalla Sicilia, precisamente dall’aeroporto di Catania, Mattei era stato infatti, nella mattinata a Gagliano Castelferrato, dove l’Eni aveva scoperto un importante giacimento di gas metano, per incontrare la popolazione e, in quell’occasione, aveva arringato la folla promettendo, grazie alle risorse scoperte, un futuro diverso e certamente migliore. La presenza della mano della mafia verrà fra l’altro testimoniata dal collaboratore di giustizia Maurizio Avola il quale confermava che «A mettere la bomba sull’aereo di Mattei sono stati i mafiosi Francesco Mangione e Nitto Santapaola, per incarico di Giuseppe Calderone su richiesta di Cosa Nostra americana». Le conseguenze della morte di Mattei pesarono sul futuro del Paese e dell’Ente che aveva costruito, molti progetti ambiziosi che aveva concepito, vennero accantonati facendo così tirare un sospiro di sollievo ai suoi nemici, e lo stesso ENI, secondo la felice metafora di Aldo Ferrara, divenne un taxi nelle mani dei partiti, che l’hanno disinvoltamente utilizzato per scopi clientelari e per operazioni spartitorie di cui hanno ampiamente beneficiato.

GdS, 27/10/2022

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