giovedì, ottobre 13, 2022

IL PERSONAGGIO. Una strada per Insalaco, il pentito eccellente fermato dai boss prima di svelare il “contesto”

La cerimoniaIl sindaco Roberto Lagalla scopre la targa di “via Insalaco”

Intitolato al sindaco dei cento giorni un tratto della via in cui fu ucciso. Annunciò che avrebbe rivelato gli intrecci fra Cosa nostra e le istituzioni. Dai processi emerge che Riina ordinò il suo omicidio perché “poteva dare fastidio a qualcuno”. Un esempio di quella che Falcone definì convergenza di interessi tra mafia e altre“ entità”

di PIERO MELATI

La figlia Ernesta, ancora nel settembre del 2020, a trentadue anni dal delitto del padre, l’ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, era costretta a implorare il Comune di intitolare al genitore “vittima di mafia” almeno un piccolo tratto di strada. 

Ma non c’era stato nulla da fare. Un anno dopo ci si era limitati a dedicargli il canile municipale, in virtù del fatto che Insalaco — per primo in Italia — aveva vietato la soppressione dei randagi. Un po’ poco, forse. C’era solo una targa, a ricordarne il martirio, nel luogo in cui era stato ucciso il 12 gennaio del 1988, posta da Leoluca Orlando, lo stesso che al funerale aveva portato la sua bara in spalla. Ora il nuovo sindaco e l’amministrazione di centrodestra hanno rimediato alla riluttanza: la strada finalmente dedicata, le parole della cerimonia. «Ha combattuto la mafia, ha denunciato il sistema degli appalti nella città inquinata dalla mafia».

 

Palermo è città straordinaria, sorprende sempre. Quel che non avevano fatto le “amministrazioni antimafia” l’ha fatto la giunta accusata di essere stata “ispirata” da due condannati per mafia (Dell’Utri e Cuffaro). Siamo, in apparenza, alla trasmutazione di tutti i valori. La verità? Giuseppe Insalaco, detto Peppino, sindaco per soli cento giorni (dall’aprile al luglio 1984) era un personaggio considerato imbarazzante ieri e resta una storia inquietante ancora oggi. Per oltre un quarto di secolo la sua morte è stata rimossa dal quadro generale. Poi, nel 2016, era arrivato un libro-inchiesta, edito da Marsilio, “La città marcia” della cronista de L’Ora e poi di Panorama Bianca Stancanelli, a sbattere in faccia alla città le sue dimenticanze e le sue significative rimozioni. Chi era Insalaco? Che delitto è stato il suo? «Insalaco sarebbe stato il primo uomo politico che, in un imminente processo poi vanificato dalla sua uccisione, aveva annunciato che avrebbe raccontato tutto sugli intrecci tra mafia, politica, istituzioni dello Stato», dice oggi l’autrice di quella inchiesta. L’uomo, fa notare Bianca Stancanelli, era fermamente deciso a rivelare quelli che ancora nell’estate del 2022 la sentenza d’appello del processo Trattativa ha definito «gli indicibili segreti». Sarebbe stato, insomma, quel “pentito di Stato”, quell’uomo della politica e delle istituzioni, invocato da anni da Fiammetta Borsellino e dal movimento antimafia in generale come il possibile risolutore della storia segreta d’Italia. «La mafia, nella sua storia, annovera pentiti di alto rango che ci hanno raccontato moltissimo sulle vicende di Cosa nostra. Ma, quanto a politica ed economia, nessuno da quei mondi ha mai confessato i legami con le organizzazioni criminali», spiega Stancanelli. Insalaco voleva essere il primo, e forse avrebbe aperto un fronte. Venne fermato da quattro colpi di pistola. Omicidio, dicono le carte giudiziarie successive, ordinato direttamente da Totò Riina, in quegli anni il dittatore assoluto di Cosa nostra. «Perché poteva dare fastidio ad alcune persone», sarebbe stata la motivazione della mafia. Un “fastidio” da evitare col sangue. E l’ombra lunga di quella pubblica esecuzione ha pesato negli anni, e pesa ancora oggi, nella riconquista del “silenzio di Stato” da parte dei rappresentanti istituzionali più coinvolti negli “indicibili” intrecci. 
Insalaco sapeva tutto della storia sconosciuta d’Italia. Era cresciuto come segretario del ministro dell’Interno degli anni Sessanta Franco Restivo. Questi lo aveva personalmente inviato a casa del giornalista de L’Ora Mauro De Mauro, il giorno della sua tuttora misteriosa scomparsa, il 16 settembre del 1970. Da quel giorno in poi, da posizioni privilegiate di deputato all’Assemblea regionale siciliana e di alto dirigente del partito di maggioranza relativa, la Democrazia cristiana, aveva vissuto l’intera catena degli “omicidi eccellenti” siciliani, conoscendo ogni piega del mondo dei pubblici appalti, degli intrecci tra politica, massoneria e mafia, del ruolo ambiguo dei servizi segreti in Sicilia. 
E, dopo le sue dimissioni da sindaco, nel corso di una serie di interviste clamorose, aveva annunciato che avrebbe presto parlato, iniziando a stilare anche una lista di nomi del “vero” potere occulto siciliano. 
In Sicilia, com’è noto, allora si moriva per molto meno. Ma l’interesse alla sua eliminazione da parte della mafia era relativo. Certo, sarebbe stato un “fastidio” anche per Cosa nostra vedersi bruciare preziosi alleati esterni. Eppure, non sarebbe stata certo la mafia il bersaglio principale di quelle rivelazioni. Si profilò, dunque, quella che Giovanni Falcone ha definito «una convergenza di interessi» tra i clan e le sempre indicibili e mai meglio specificate «entità». 
Per questo il libro di Bianca Stancanelli resta importante. Tacitato col piombo Insalaco, vanificato il processo delle sue rivelazioni, la giornalista ha ricostruito lo scenario del delitto. Il “contesto”, lo avrebbe definito Sciascia: non la semplice denuncia di un qualche appalto truccato o di un politico corrotto, ma il funzionamento di quel sistema che ha condannato per decenni la Sicilia a essere il giardino degli orrori d’Italia. 

La Repubblica Palermo, 13/10/2022

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