lunedì, agosto 14, 2023

Parla Mimmo Cuticchio: «Coi miei pupi ho sconfitto l’indifferenza»


Giovanna Cirino

Gli occhi arguti del puparo più famoso sono neri e ribelli, sono gli occhi di un artista felice perché ha vinto la scommessa della vita, quella iniziata negli anni ‘70 su cui nessuno avrebbe puntato. Restare in via Bara all’Olivella e non cedere alle sirene tentatrici che lo avrebbero portato tra i palazzoni senza storia di viale Strasburgo, il quartiere con le vetrine luccicanti, uno dei simboli del «sacco» di Palermo. 

Pure sua madre glielo diceva: «Mimmo vai via da qui, ormai non c’è più posto», ma lui niente, energico e indomito non ha lasciato l’isola, come erano chiamati un tempo i mandamenti. E quell’isola lo ha reso felice. Il maestro del cunto Mimmo Cuticchio, 75 primavere appassionate, importante esponente contemporaneo della tradizione del teatro di figura, figlio del grande oprante Giacomo e di Pina Patti, ricorda con romantico candore la sua vita legata in modo indissolubile al Teatro e alla Macchina dei sogni, quell’arte espressa con talento attraverso i fili dei pupi.

Cosa è per lei la tradizione?

«È come un fiume creato dal tempo con l’acqua che scorre dentro sempre fresca. Non è qualcosa di finito, ma un patrimonio da conservare con rispetto, da rinnovare e trasmettere ai giovani, al futuro».

Come era via Bara all’Olivella negli anni Settanta?

«Immagini una strada viva, ma emarginata, affollata ma piccola, larga circa 4 metri dove i marciapiedi non superano i 40 centrimetri, dove tutto era difficile. Per legge una stradina così doveva essere un’area parcheggio o una via a senso unico, oppure una zona pedonale. Lì invece le macchine circolavano, si posteggiava, scaricava, c’era il panellaro, il fabbro, il pittore che girava in bicicletta, il falegname di scale. I turisti per entrare al teatrino pubblico dovevano fare una gincana impegnativa, lo spazio era tutto occupato. Un giorno misi due grossi vasi per evitare che parcheggiassero e per lasciar libero l’ingresso. Fui denunciato e mi arrivò una multa. Ma non solo, dato che avevo una licenza pubblica pagavo una tassa governativa dello stesso importo del teatro Biondo che però aveva in via Roma tutte le belle piante usate per decoro e come dissuasori, e anche il servizio dei vigili urbani».

Cosa era un tempo il locale dove oggi si trova il Teatro?

«Era un deposito di olive. La maggior parte di quei locali che poi ho rilevato per ingrandire il teatro e il mio laboratorio erano magazzini di approvvigionamento di materie prime arrivate con le barche alla Cala».

Serve molto spazio per contenere la sua collezione di pupi?

«I pupi censiti sono 1280 di cui 400 vanno dalla prima metà dell’Ottocento ai nostri giorni, i pupi classici della chanson de geste, i Paladini per intenderci. Gli altri pupi sono quelli della nuova generazione che ho costruito dal ‘73 in poi, quando ho capito che bisognava rinnovare i testi e quindi i personaggi per rinnovare il pubblico. Così ho iniziato a scrivere copioni nuovi e dal Cagliostro degli anni ‘70 all’Histoire du soldat – l’opera da camera di Igor Stravinskij con cui quest’anno abbiamo debuttato in America – ne abbiamo realizzati più di 700».

Ha fatto tutto da solo?

«I modelli della tradizione sono stati creati con l’aiuto di maestri artigiani intagliatori del legno e del metallo. Per quelli di nuova generazione, per esempio per mettere in scena l’Iliade, ho studiato tanto documentandomi, e armato di buona lena con i miei fratelli Guido e Nino siamo riusciti nell’impresa».

Parlando con lei oltre a ripercorrere la nostra storia e le nostre memorie si percepisce una certa soddisfazione. È una persona felice?

«Mio padre ci spiegava che in ogni uomo c’è una parte femminile che nel nostro caso serviva per capire meglio come interpretare le voci femminili che a lui non piaceva fossero in falsetto. Dovevamo comprendere il sentimento della donna: anziana, giovane, dama, guerriera. In seguito ho capito che un’altra figura salvifica per l’uomo è il bambino, o meglio quella parte fanciullesca, senza malizia e pura di cuore, che si meraviglia di continuo come ne La lampada di Aladino. La mia felicità deriva dall’aver creduto in quello che ho fatto, di aver incantato con La Macchina dei sogni, di restare fanciullo».

Lo ha fatto anche per i suoi genitori?

«Durante il secondo dopoguerra l’Opera dei pupi ebbe un crollo e scomparve il pubblico tradizionale. I miei genitori erano stati sconfitti dai tempi moderni. La tv era entrata nelle case di tutti, l’intrattenimento non era più al teatrino e loro erano costretti a lavorare solo per i turisti. L’Opera dei pupi perse la sua funzione sociale ed etica assumendo progressivamente lo status di un prodotto folcloristico. Io ho vissuto questo dolore e le angherie dell’incapacità politica, avevo circa 20 anni e non lo accettavo perché il teatro è testimonianza storica e ricerca, un patrimonio antico che non poteva essere svilito».

Lei è un romantico?

«Ho una certa sensibilità e sono cosciente della lotta dura che ho intrapreso in quegli anni quando nessuno ci aiutava, solo poche agenzie di viaggi che ci mandavano i turisti. Non erano loro quelli deputati a sostenerci, doveva essere l’assessorato alla Pubblica istruzione, la Regione, il Provveditorato, l’assessorato al Turismo, invece siamo stati abbandonati, lasciati completamente soli. Oggi che ho conquistato il mondo e faccio parte in un certo senso del patrimonio Unesco, grazie al loro riconoscimento, mi viene da sorridere, chi lo avrebbe mai detto che doveva essere l’Europa a spiegare alla nostra politica l’importanza del teatro dei pupi, capolavoro del patrimonio orale e immateriale dell’umanità. Sino a qualche anno fa non avevamo nemmeno la legge sul teatro».

Ma lei con i pupi che rapporto ha? Ci parla?

«Ci abito, ci vivo, ci lavoro, condivido tutti gli spazi. Ho pupi appesi in ufficio e in camera da letto. Sono compagni di vita, hanno gli occhi aperti e ci guardiamo, mi aiutano anche. Come quando dovevo mettere in scena il Don Giovanni al teatro Biondo e non riuscivo a trovare la chiave di lettura. Ero in laboratorio molto stanco, a un tratto vedo un pupo in faggio non armato con un parrucchino che gli avevo messo in testa per interpretare l’assistente di Cagliostro. Lo muovo, si muove, e iniziamo a ballare. In quella magia ho trovato la soluzione: nella rappresentazione con i pupi di farsa ho creato un pubblico che guarda il pubblico e lo spettacolo è stato un grande successo portato in tournée». (*giocir*)

GdS, 14 agosto 2023

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