domenica, agosto 06, 2023

LA STORIA. Motisi, l’ultimo latitante e i misteri irrisolti dell’omicidio Cassarà

di Salvo Palazzolo

Fra i sicari che 38 anni fa uccisero l’investigatore della squadra mobile c’è il boss di Pagliarelli che oggi è diventato il ricercato numero uno. “U pacchiuni” ha una storia singolare: a fine anni Novanta venne estromesso dal vertice del clan. Il 6 agosto è anche l’anniversario della morte del procuratore Costa assassinato nel 1980 

Ci sono giorni in cui le storie di Palermo continuano a intrecciarsi in modo vorticoso, fra passato e presente. Il 6 agosto è uno di questi. Trentotto anni fa, era il 1985, i killer di Cosa nostra uccisero il vice questore Ninni Cassarà, il brillante capo della Sezione Investigativa della squadra mobile, il principale collaboratore del giudice Falcone. Fra quei killer, che assassinarono anche l’agente Roberto Antiochia, c’era Giovanni Motisi, oggi l’ultimo grande latitante di Cosa nostra. Un’altra primula rossa, ormai dal 1998, come lo era Matteo Messina Denaro fino al 16 gennaio scorso. Un altro fantasma, che sembra imprendibile nonostante l’impegno della procura di Palermo e delle forze di polizia. 

Il 6 agosto è davvero un coacervo di storie. E di misteri. Le sentenze che hanno condannato gli esecutori e i mandanti della Cupola per il delitto Cassarà, hanno avanzato il pesante sospetto che fu una talpa all’interno della squadra mobile a dare la battuta ai killer. L’investigatore non era più tornato nella sua abitazione di via Croce Rossa dopo l’omicidio del commissario Beppe Montana, il capo della sezione Catturandi ucciso il 28 luglio. Dunque, chi avvertì Motisi e tutto il commando, formato da una quindicina di persone, che Cassarà sarebbe uscito proprio il 6 agosto? Quella mattina, il poliziotto aveva telefonato alla moglie Laura per annunciare il suo ritorno a casa. Poi, alle 14.50, lasciò l’ufficio. Ci vollero sei minuti per raggiungere via Croce Rossa, i sicari erano già appostati. Si erano divisi in squadre. Motisi stava con Salvatore Biondino, l’autista di Salvatore Riina, e con Salvatore Biondo detto il “ corto”, dentro un furgone: si sistemarono davanti al residence di Cassarà quando la sua auto varcò l’ingresso. Pronti a qualsiasi imprevisto mentre Calogero Ganci, Nino Madonia e Francesco Paolo Anzelmo facevano fuoco appostati nelle scale del palazzo di fronte. 
Giovanni Motisi detto il “ pacchione”, il grasso, aveva 26 anni all’epoca, era un mafioso della famiglia di Pagliarelli. Ma era soprattutto un fidato killer del gruppo di fuoco scelto da Riina per gli omicidi eccellenti. Anzelmo, uno dei sicari di Cassarà che poi ha collaborato con la giustizia, ha raccontato all’allora sostituto procuratore Gioacchino Natoli, che Motisi partecipò anche alle riunioni preparatorie a vicolo Pipitone. « La prima si tenne ad inizio luglio. L’ordine della commissione presieduta da Riina era di uccidere Cassarà e Montana». E fu eseguito. 
Motisi, che oggi ha 64 anni, conserva tanti segreti su quella stagione di morte. Strana storia la sua. Dopo essere stato un killer, è diventato capo del mandamento di Pagliarelli, per meriti criminali straordinari. Ma alla fine degli anni Novanta venne estromesso da tutti gli incarichi. Per disposizione di uno dei mafiosi più autorevoli del clan, Nino Rotolo. Un caso alquanto unico. Perché, come disse Buscetta al giudice Falcone, da Cosa nostra si esce «solo con la morte o collaborando con la giustizia». E Giovanni Motisi non è un pentito. Non sembra neanche che sia morto. Ma cosa fece di tanto irriguardoso nei confronti dei vertici mafiosi da essere espulso? Qualche pentito ha raccontato che aveva una gestione allegra della cassa del mandamento, di sicuro non condivideva con gli altri mafiosi i proventi delle estorsioni. Il pentito Angelo Casano ha aggiunto: « Non si faceva mai vedere, non dava mai risposte » . All’inizio degli anni Duemila, Motisi avrebbe lasciato anche la moglie che chiese al vertice del mandamento di potersi rifare una vita pure lei. Inizialmente, era arrivato un no. Poi, invece, il boss Rotolo autorizzò. Evenne intercettato dalla squadra mobile mentre diceva: « Se un domani dovesse venire qualcuno mandato da Giovanni (Motisi ndr),cerca me e io so cosa gli devo dire, questo te lo posso promettere: bello mio, tu te ne sei andato e non ti sei preoccupato». 
Non furono presi altri provvedimenti punitivi, anche perché Motisi è nipote di un altro autorevole padrino di Cosa nostra, Matteo Motisi classe 1918, che era stato al vertice del mandamento di Pagliarelli. Semplicemente, il boss si sarebbe fatto da parte. E in nessuna indagine è più rispuntato. Così, adesso, Giovanni Motisi è un fantasma che aleggia su Palermo. 
Le sue ultime foto furono ritrovate dai carabinieri all’inizio degli anni Duemila, durante una perquisizione a casa dei familiari: lo ritraevano durante una festicciolacon la moglie e i figli, sullo sfondo avevano sistemato delle tende, per nascondere il luogo. Gli investigatori sono convinti che fosse una villetta di Casteldaccia. Nel 1999, durante un’altra perquisizione a casa, erano saltati fuori dei pizzini fra il latitante e la moglie, Caterina Pecora: continuavano a fare una vita normale, parlavano del falegname che doveva venire a casa, e del fioraio. Poi, il nulla. 
Il 6 agosto è ormai il simbolo dei pezzi mancanti di Palermo. Questo stesso giorno, del 1980, Cosa nostra uccise Gaetano Costa, il procuratore della Repubblica di Palermo che aveva appena avviato un’indagine bancaria sui rapporti fra il clan Inzerillo e ambienti economici della città. Anche questa una storia che intreccia passato e presente di Palermo: non c’è nessun colpevole per l’omicidio di Costa, il presunto palo del delitto — un Inzerillo — venne assolto tanti anni fa. Oggi, invece, diversi esponenti del clan Inzerillo sono tornati in Sicilia dopo il lungo esilio negli Stati Uniti imposto da Salvatore Riina. E non sono più i “ perdenti” della seconda guerra di mafia del 1980, piuttosto vogliono riprendersi Palermo. Con i tesori che la giustizia non è mai riuscita a sequestrargli. 
Il presente e il passato di Palermo. A intrecciarlo in modo asfissiante è proprio un fiume di soldi, quelli che Ninni Cassarà cercava assieme al giudice Falcone. Dopo aver terminato l’istruttoria del maxiprocesso, che svelava l’ala militare dell’organizzazione, il poliziotto e il giudice puntavano ai patrimoni mafiosi nascosti in Svizzera grazie a insospettabili complicità: a fine giugno erano stati insieme a Lugano, con i colleghi elvetici stavano lavorando su Vito Roberto Palazzolo. il tesoriere dei Corleonesi, il manager di Terrasini che aveva architettato la macchina del riciclaggio della Pizza Connection, il più grande affare di droga mai realizzato dai boss, dal Medio Oriente agli States, passando per la Sicilia. 
Poco prima di morire, Cassarà aveva inviato dei documenti ai collegi svizzeri, dopo la sua morte arrivò una nota da Lugano alla squadra mobile: la polizia informava che il plico era arrivato aperto, mancate di alcuni documenti. Intanto, in quella drammatica estate del 1985, qualcuno fece sparire anche l’agenda di Cassarà dal suo ufficio. Un’agenda rossa. E questa volta, davvero, passato e presente di Palermo si intrecciano in maniera asfissiante. Da almeno cinque anni, la procura di Palermo oggi diretta da Maurizio de Lucia chiede con una rogatoria al Sudafrica di sequestrare il tesoro di Vito Roberto Palazzolo, ma il Sudafrica non risponde. 
Il 6 agosto è un altro dei baratri di Palermo. Dove adesso, probabilmente, è nascosto Giovanni Motisi, il killer che scelse di dimenticare il suo passato. 
La Repubblica Palermo, 6 agosto 2023

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