domenica, agosto 21, 2022

L’INEDITO. La ragionevole speranza di Pasolini


di PIER PAOLO PASOLINI


Nel 1965 alla Pro Civitate Christiana in un convegno l’intellettuale contestava gli assunti irrazionali e moralistici degli interventi «Serve una cultura comune». Riemerge dagli archivi il testo dattiloscritto, testimone di una stagione di fiducia. Negli anni poi il pensiero pasoliniano si sarebbe fatto pessimista

Io vorrei fare prima un’osservazione preliminare se vuole chiamare terminologica. Fare poi due o tre osservazioni magari un po’ polemiche su quello che ho sentito; non ho sentito tutti gli interventi e alla fine fare una dichiarazione di quella che secondo me è la speranza anche se in modo molto schematico. L’osservazione terminologica è questa. Mi pare che si usi la parola speranza in un modo un po’ plurivalente non voglio dire ambiguo, perché l’ambiguità suppone due tipi di speranze. E invece qui quando usiamo la parola speranza contemporaneamente si significa una speranza particolare che è quella di ognuno di noi. Per esempio un cattolico usa la speranza nell’accezione cattolica del termine, ma contemporaneamente si ha l’occhio presente al significato che questa parola può avere per un marxista e per un esistenzialista oppure speranza come pura vitalità e così via.

Quindi secondo me sarà bene se si vuole arrivare a qualche conclusione precisa e concreta di questo nostro incontro di studi [?] usare una certa precisazione terminologica nell’uso proprio di questa parola che è al centro della nostra discussione. Cioè toglierla dalla plurivalenza e da una certa ambiguità perché intellettualmente è un pochino sì, in questo caso ambigua.

Le osservazioni che devo fare sono in parte su quello che ha detto Bonaventura Tecchi e mi dispiace che non sia qui, purtroppo a contraddirmi e in parte su quello che ha detto ora Padre Haering. Il nocciolo dell’intervento di Bonaventura Tecchi è la definizione di un certo irrazionalismo insito non soltanto nel momento trascendente dell’uomo cioè nella concezione formalmente religiosa, ma un irrazionalismo insito in tutti i momenti della sua vita, nella sua psicologia, nei suoi rapporti quotidiani con gli altri. E questo irrazionalismo Bonaventura Tecchi lo ha dedotto da una serie di considerazioni cioè nella presenza, secondo me, dedotta ontologicamente senza dimostrazione da una certa ingiustizia ineliminabile nella condizione umana, che probabilmente da parte dei cattolici può essere presa per buona in quanto che probabilmente un cattolico può identificare questa ontologica ingiustizia di cui parla Tecchi con la condizione del peccato originale. Credo almeno. Cioè questa condizione, questa specie di condanna del dolore è dovuta al peccato originale. Per un marxista almeno questo qui è un concetto più difficile da digerire, anche se in tanti punti molto probabilmente un marxista in tanti punti può essere d’accordo. Tecchi ha fatto due esempi. Ha fatto l’esempio delle due sorelle, una specie di romanzo in nuce molto interessante. Due sorelle perfettamente uguali, ma una con un destino l’altra con un altro. Una ha un destino d’angoscia e di dolore una un destino lieto ecc. ecc. Ma questa è una ontologia perché se noi portiamo la nostra ragione, cioè la nostra capacità di comprensione su queste due sorelle e l’analizziamo comprendiamo la ragione per cui i loro destini sono diversi. Cioè se noi analizziamo il destino di una delle due sorelle, noi vediamo che questo destino lo ha voluto lei. Cioè voglio dire che il nostro destino non è che la proiezione esterna del nostro carattere della nostra psicologia. Allora è chiaro che il destino di una delle due consciamente e inconsciamente in qualche modo se lo è scelto, è la proiezione di se stessa. E allora questa ingiustizia si spiega e nel momento stesso in cui dalla nostra ragione è spiegata non ha più questo significato ontologico, apocalittico che le dava Tecchi. L’altro esempio che faceva Tecchi è quello delle malattie. Ma ho sentito prima l’intervento di un medico che parlava della strettissima correlazione tra il nostro carattere e il nostro spirito diciamo così e il nostro corpo. Verrà probabilmente il momento in cui si potrà dire almeno teoricamente e in qualche modo quindi razionalmente come ogni malattia in fondo è sia voluta da noi. Freud dice già che probabilmente moltissime ma-lattie sono un atto inconscio della nostra volontà. Noi vogliamo averle, ce le creiamo da noi stessi. Quindi anche in questo senso qui credo che predicare come dato assoluto ineliminabile categorico dell’uomo questa fatale ingiustizia mi sembra che è sia per lo meno contestabile. Ma ad ogni modo su queste idee si potrebbe ancora meglio discutere.

Voi immaginate di discutere infinitamente probabilmente finirei con l’aver torto io. Il punto con cui non sono d’accordo con Bonaventura Tecchi è nella conclusione che lui ne trae, cioè che questa ingiustizia non possa essere che produttrice di una ideologia irrazionalistica. Ora si può seriamente ammettere l’esistenza di una irrazionalità, ma questa irrazionalità deve essere capita compresa e quindi dominata dalla ragione. E la deduzione finale di Tecchi mi sembra molto pericolosa culturalmente se detta da un romanziere, se detta da un uomo di cultura, da un intellettuale perché predicare una ideologia irrazionalistica è commettere uno di quegli errori che per tornare a un discorso purtroppo molte volte fatto qui, è uno di quegli errori culturali che hanno prodotto Hitler. Cioè l’ideologia hitleriana, il razzismo hitleriano e tutto il suo tipo di cultura mostruosa e aberrante è tutto sommato fondato su elementi peggiori scadenti, negativi fin che volete dell’irrazionalismo decadentistico e quindi mi sembra pericoloso predicare ideologicamente la preminenza dell’irrazionalismo. Con ciò non voglio assolutamente dire che non ci siano in noi degli elementi irrazionali, questo l’ho sempre detto. Dico soltanto che non devono mai essere ideologizzati, cioè l’irrazionalismo deve essere solamente un oggetto, la materia della nostra ragione.

E ora vengo al secondo momento del mio intervento cioè un’osservazione sul primo discorso di Padre Haering. La cosa che vorrei notare è linguistica. Mentre ascoltavo la relazione di P. Haering ho notato che spesse volte egli usava il verbo dovere. In principio non lo percepivo poi in po’ alla volta ne ho preso coscienza. Dopo la terza, la quarta, la quinta la sesta volta. Ho cominciato a farci caso e ho notato che la parola dovere è intervenuta spessissime volte nel suo discorso. Credo di averla contata perlomeno dalle quindici alle venti volte. Lo scrittore deve, noi dobbiamo. Ora io non voglio intervenire da moralista su un discorso che diventerebbe fondamentalmente moralistico. Accetto questo moralismo e non lo giudico da moralista. Voglio fare un’osservazione invece di tipo filologico-linguistico-culturale. Scusate se faccio un confronto forse sproporzionato. Siccome sono fresco dall’aver fatto un film dal Vangelo secondo Matteo ho molto presente il testo e ho cercato nella mia memoria il punto del Vangelo in cui ci fosse la parola dovere in bocca a Cristo. Secondo me non c’è. Ho chiesto ai miei amici se per caso la ricordassero e nessuno mi ha saputo indicare un punto in cui ci fosse la parola dovere nelle parole di Cristo. Quello che Cristo dice è sempre detto direttamente: 'Dai questo, fai quest’altro'. Cioè è un insegnamento diretto, è il momento religioso diretto da parte di Cristo agli altri uomini. Oppure ricorreva a delle circonlocuzioni estremamente belle e poetiche tra l’altro. Invece di dire 'Devi essere povero di spirito', diceva 'Beati i poveri di spirito'. Cioè non usava mai la parola dovere. Ora perché a un certo punto tutta la Chiesa cattolica da circa duemila anni dopo Cristo invece usa questa parola. Perché questa è la parola della mediazione culturale del Vangelo. Il Vangelo nel suo momento puro divino era in questo modo diciamo così pragmatico, divinamente pragmatico. Nel momento in cui si inserisce nella società ha dovuto accettare le varie culture, i vari momenti storici di questa società e vorrei rendere emblema di questa mediazione tra Vangelo e società la parola dovere. Ora sarebbe curioso fare una ricerca storica dei momenti in cui la parola dovere è stata variamente usata nella predicazione del Vangelo. Quali sono stati i punti in certe epoche storiche che sono presentati con più frequenza come dei doveri ecc. ecc. Però a me interessa l’ultimo momento culturale che ha prestato questa parola mediatrice al Vangelo. L’ultimo momento culturale è evidentemente la cultura dell’Ottocento, da una parte l’idealismo, insomma tutta la cultura postkantiana. Cioè in questo momento probabilmente agisce, soprattutto sulla parola dovere, come mediatrice del Vangelo e credenti Kant e il grande idealismo tedesco.

Questo discorso è così un po’ un excursus che naturalmente andrebbe approfondito e reso…meno campato in aria. Tutto questo per arrivare a dire che c’è un momento culturale comune a tutti noi, qualsiasi sia la nostra opinione religiosa, politica e sociale e anche qualsiasi sia la nostra esperienza vitale, nel senso esistenzialistico della parola. Cioè tutti operiamo in una cultura comune, la stessa cultura che dà una certa accentuazione alla parola dovere nel discorso di Padre Haering, questa stessa cultura è quella che dà una certa accentuazione alla parola dovere nella moralità marxista e nella moralità del liberalismo borghese ecc. ecc.

C’è qualcosa in comune: è su questo terreno comune che secondo me si può impostare questo famoso dialogo di cui forse questo incontro di oggi è uno degli episodi. E allora giungo alla conclusione. Per me appunto in questo ambito culturale in cui ci possiamo comprendere e in cui la parola speranza può effettivamente avere un reale significato comune, in questo ambito culturale per me la parola speranza coincide con la parola ragione. Ma non vorrei che voi intendeste la ragione in un senso razionalistico, liberale, ottocentesco laico, no. Sono in polemica con il laicismo borghese. Sono in forte polemica con il laicismo borghese quindi quando io dico ragione intendo qualcos’altro di quella che è stata la divinità della borghesia in questi ultimi cento anni. Intendo una ragione infinitamente più aperta, più umana, tale da comprendere in sé anche l’irrazionalismo di cui parlava Tecchi che è un momento inevitabile dell’uomo e tale da comprendere anche il momento religioso da parte di un marxista e il momento autenticamente sociale da parte di un cattolico.

avvenire, 21/8/2022

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