martedì, maggio 11, 2021

SANTORO IL NEOMELODICO

Michele Santoro

BIANCA STANCANELLI

Da Tommaso Buscetta a Giovanni Brusca, da Gaspare Mutolo a Francesco Di Carlo, da Antonino Calderone a Gaspare Spatuzza, uno stuolo di pentiti di mafia ha inondato le librerie con il racconto delle proprie gesta, affidandolo a giornalisti. Nessuno di loro, però, ha avuto la ventura di imbattersi in un interlocutore così entusiasta come Michele Santoro, capace di eccitarsi come un bambino al racconto delle imprese, anche le più rivoltanti, di Maurizio Avola e di celebrarle con onomatopee da fumetto: “bum!” per un omicidio (Jacovitti avrebbe scelto, più opportunamente, “bang”), “bum!bum!bum!” per un attentato.

 L’esito, nelle 400 pagine di “Nient’altro che la verità” - come, con ammirevole senso della misura, Santoro ha intitolato il suo libro - è il ritratto di una sorta di Che Guevara dell’Etna, che – senza citare e, probabilmente, senza neppure conoscere Brecht – condivide con lui l’assioma che il vero ladro è chi fonda le banche, non chi le rapina e si comporta di conseguenza, affiancando a questa prima vocazione il campionario di crimini tipico di un docile servo della Cosa Nostra catanese.

Potendo contare sull’entusiasmo del giornalista che raccoglie le sue rivelazioni (e che giornalista! Un uomo che ha fatto la storia della televisione italiana negli ultimi trent’anni), Avola inevitabilmente “si allarga”. E non resiste a spararle sempre più grosse. Per esempio, colloca un catanese sulla scena dell’assassinio di Piersanti Mattarella; e già che c’è, gli fa impugnare la pistola e sparare al presidente della Regione: chi mai potrà smentirlo, quarant’anni dopo? Fino alla “masculiata” finale: quando, di fronte a un Santoro attonito, Avola si scatta un metaforico selfie in via D’Amelio, il 19 luglio 1992, fotografandosi mentre guarda per l’ultima volta negli occhi Paolo Borsellino prima di chinare la testa, dando così il segnale a Giuseppe Graviano perché prema il telecomando per far saltare in aria il magistrato e la sua scorta.

Va da sé che è stato Avola a fornire l’esplosivo per la strage, Avola a sistemare quel medesimo esplosivo nella Fiat 126 che verrà fatta esplodere. E dunque Avola può garantire – e Michele Santoro confermare con assoluta certezza - che non vi fu ombra di servizi segreti in via D’Amelio e che la strage è tutta e solo cosa di Cosa nostra.

E pazienza se, a questo punto, non si capisce perché mai proprio sull’assassinio di Paolo Borsellino si sia dovuto costruire quel che la magistratura ha definito “il più grave depistaggio nella storia della Repubblica” e ancor meno si capisce perché Avola stesso, chiuso in cella con «un pentito che aveva partecipato a dire false dichiarazioni su via D’Amelio», si fece l’opinione che «c’erano cose grosse sotto, che ci puoi rimettere la pelle. Era un imbroglio di Stato».

Queste sono contraddizioni che stridono solo all’orecchio di modesti cronisti come la sottoscritta. Santoro non fa mistero di disprezzare i giornalisti. Li giudica «animali piuttosto prudenti dalla nascita», li distingue tra quelli che «definiscono ‘professionalità’ la capacità di evitare i pericoli», «quelli attratti dallo stipendio» e i «figli di giornalisti e i raccomandati in genere» – «categorie, a nessuna delle quali mi sento di appartenere». Io avrei ritegno a scrivere cose del genere in un paese che ha il record europeo di giornalisti ammazzati dalle mafie e dai terrorismi, ma riconosco che Santoro ha ragione a giudicarsi estraneo alla categoria: oggi neppure il più scalcagnato dei cronisti crede più alla decrepita favoletta della mafia giustiziera che vendica torti e garantisce l’ordine. E solo nelle canzoni dei neomelodici si può sentire che «un quartiere non è mai stato così pulito, ordinato e sicuro» come quando si è affidato alle cure dei mafiosi. Santoro ci crede, invece, anzi è convinto che «il prodotto interno lordo illegale ha attenuato la miseria e la disoccupazione». Potrebbe forse discuterne con Giuseppe Condorelli, l’imprenditore (catanese) dei torroncini che ha denunciato i mafiosi che pretendevano il pizzo dalla sua impresa. O potrebbe leggere Gramsci che aveva chiarissimo, quasi cent’anni fa, come “… la maffia non è altro che una forma di malavita che vive parassitariamente…”. 

In pagine seminate di «minchia», garanzia di colore locale, e scandite dai continui “bum!bum!”, Santoro lascia cadere osservazioni di sconcertante superficialità. Sull’assassinio di don Puglisi, ad esempio, scrive: «Don Pino muore come il giudice Scopelliti, senza sapere il vero perché» quando è noto che il parroco di Brancaccio andò incontro alla propria fine con piena consapevolezza, tanto da dire ai suoi assassini “Me l’aspettavo”. 

Considerazione finale: nell’intrecciare alla storia di Avola la propria biografia privata e professionale, Santoro ricorda quando Angelo Guglielmi lo mandò in video in prima serata a sostituire Andrea Barbato, «un grande giornalista celebrato da tutti che lui (Guglielmi) non pensava avesse i tempi giusti per quella collocazione». Come dire, una banale legge di natura: leone giovane caccia leone vecchio. Ora che tocca a lui essere accantonato per far largo a nuovi conduttori, Santoro evoca la censura, la catastrofe, la morte del giornalismo e con sdegnosa compassione volge lo sguardo verso i suoi «collaboratori» che «hanno trovato facilmente lavoro»: «avevano bisogno di uno stipendio per sopravvivere», li giustifica. E già, non tutti sono capaci di rapinare banche.

10/5/2021

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