mercoledì, aprile 28, 2021

La mafia non è il passato. L’ergastolo ostativo e la gestione dei pentiti


di Giuseppe Pignatone

Nei giorni scorsi la Corte costituzionale ha anticipato con un comunicato stampa i termini essenziali della decisione sulle norme che vietano la concessione della liberazione condizionata ai condannati all’ergastolo per reati di mafia che non abbiano collaborato con la giustizia. La Corte ha ritenuto questo regime normativo in contrasto sia con la Costituzione (articoli 3 e 27) sia con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (articolo 3), ma ha rinviato la declaratoria di illegittimità costituzionale al maggio 2022 perché, come spiega il comunicato, “l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. La sentenza della Corte pone molte e delicate questioni tecniche già oggetto dei primi commenti, ma che potranno essere approfondite solo quando saranno depositate le motivazioni.

Intanto, però, mi sembra importante rilevare come la decisione della Consulta costituisca un segnale forte di contrasto a quella corrente di opinione – molto presente nel dibattito pubblico – secondo cui le norme adottate nel tempo per contrastare le mafie e prima ancora il terrorismo, anche quando non addirittura incostituzionali, sarebbero comunque ormai inaccettabili. Perché, secondo questo filone di pensiero, andrebbe finalmente chiuso il periodo iniziato quasi mezzo secolo fa, caratterizzato da provvedimenti emergenziali adottati, si sostiene, per placare una opinione pubblica impaurita ed esasperata dall’incalzare di attentati, omicidi, stragi. Sembra quasi che la mafia non sia più un problema reale del nostro Paese, ma che resti soltanto una sorta di “fissazione”, invocata da chi vuole senza motivo mantenere e rafforzare una legislazione e una giurisprudenza giustizialiste e forcaiole.

Purtroppo non è così. Le cronache di ogni giorno confermano che le mafie sono più che mai presenti e attive sia nel Sud (dove di fatto solo la Sicilia registra un relativo indebolimento di Cosa nostra) sia nel Centro e nel Nord del Paese.

Indagini, processi e molte sentenze ormai definitive dimostrano che in zone più o meno ampie di ogni regione si sono insediate le mafie tradizionali, la ‘ndrangheta in primo luogo. Con ogni probabilità nuove (e amare) novità verranno dalla collaborazione, di cui si è appreso in questi giorni, di Nicolino Grande Aracri, capo di alcune delle più potenti cosche del Crotonese, da decenni protagonista dell’espansione ‘ndranghetista in Emilia e nelle zone confinanti della Lombardia e del Veneto. È vero – e non è poco – che le mafie hanno da tempo rinunciato a macchiarsi di delitti eclatanti per evitare una reazione dello Stato forte e prolungata, come quella che dopo le stragi ha sconfitto Cosa nostra corleonese. Ma è altrettanto vero che esse sono sempre più ricche e potenti, impegnate – proprio in questo periodo – a cogliere le occasioni di espansione che la pandemia offre e a sfruttare la disponibilità di appartenenti a ogni categoria sociale a entrare con loro in relazioni d’affari e di scambio di favori. Al Sud come al Nord.

È persino superfluo ripetere che il contrasto alla mafia va condotto nel rispetto rigoroso delle regole e dei principi costituzionali, anche nella diversa interpretazione che ne dà la giurisprudenza nella sua continua evoluzione: non dimentichiamo, per esempio, che in un passato non lontano la stessa Corte aveva ritenuto conformi alla Costituzione proprio quelle leggi che oggi ritiene illegittime, anche in relazione a un mutato quadro della normativa europea.

Ma anche in quest’ultima decisione, la Corte Costituzionale conferma che la mafia non è un fenomeno criminale come gli altri. Proprio per questo concede al legislatore un anno di tempo per porre in essere “gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”.

A questo punto si ripropone il solito interrogativo: riuscirà il legislatore a raggiungere questo obiettivo nel modo più equilibrato ed efficace per il Paese? Saprà per esempio, evitare di estendere ad altri fenomeni criminali meno gravi le norme più severe messe in campo contro la mafia? La materia è delicata perché stiamo parlando di leggi che trovano giustificazione nella eccezionale pericolosità delle associazioni mafiose e che proprio per questo possono essere accettate, nel nostro sistema democratico, da un’opinione pubblica consapevole, che le riterrebbe tuttavia esagerate se applicate in altri campi. Con il rischio, di cui da qualche tempo si avvertono i primi segnali, che alla fine quelle norme siano completamente travolte.

La Repubblica, 28 aprile 2021

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