sabato, marzo 13, 2021

La benedizione di Riina: è un lupo!

Nel 2000 andava a pranzo col figlio di Totò Riina, Giuseppe Salvatore, per discutere di affari. Pochi mesi dopo i suoi incontri in carcere con Giovanni, l’altro rampollo del capo dei capi, finirono al centro di un corposo dossier. Ma già in tempi non sospetti Francesco Paolo Maniscalco, Franco per gli amici, sarebbe stato a disposizione dei Corleonesi per «capitare i cristiani» da mandare per strada, tradotto per i non addetti, reclutare manovalanza per le estorsioni. Fu però il 1991 l’anno della svolta. E in particolare quella torrida antivigilia di Ferragosto in cui il giovane aspirante boss entrò nelle grazie dei personaggi che contavano veramente grazie al colpo al caveau del Monte di Pietà: diciotto miliardi di vecchie lire in oro e gioielli finiti tra le casse di Cosa nostra e le tasche dei sette componenti del commando. Se ci mettiamo anche un arresto, nel 1993, per traffico internazionale di droga lungo l’asse Colombia-Gran Bretagna-Italia, si può dire che nel tempo gli è stato contestato di tutto.

Tuttavia, che non fosse destinato a furti, rapine, spaccio e reati minori, lo capirono in molti già nei primi anni Duemila, quando dopo una condanna a sei anni e otto mesi decise di «riciclarsi», è il caso di dire, e di tuffarsi nel mondo degli affari. Dopo tutto, le referenze erano le migliori che si potessero avere nel suo campo. Lo stesso Riina senior, come ricorda il gip Turturici nel provvedimento eseguito ieri, lo riteneva infatti un ragazzo «con le palle» e anche «un lupo», cioè un soggetto di caratura criminale elevatissima e di sicura lealtà verso Cosa nostra. Per usare le parole del boss corleonese, un «veterano di antica stirpe mafiosa». E in effetti la storia familiare di Maniscalco annovera personaggi di spicco come il padre e lo zio, con ruoli di vertice e mai una sbavatura, tutte circostanze che – lo riposta sempre il gip – nel tempo hanno garantito «fiducia incondizionata dei vertici di Cosa nostra nei suoi confronti» fino al punto di farlo «assurgere al rango di garante e collettore degli interessi di una pluralità di articolazioni di Cosa nostra storicamente insediate nel territorio di Palermo».

Ma non solo. Perché nel corso degli anni la storia di Maniscalco si è arricchita di nuovi tasselli e di nuove esperienze imprenditoriali anche a Roma, dove attraverso una rete di prestanome avrebbe gestito anche un bar a Trastevere. Un ruolo importante, nel tempo, lo avrebbero avuto i fratelli Salvatore e Benedetto Rubino, con cui nel 2011 aprì il bar-pasticceria «Sicilia e Duci srl». Quello fu il primo passo di una lunga serie. Che nel corso degli anni, come ricostruito dagli investigatori, ha portato alla nascita di una «holding attiva nel settore dei giochi e delle scommesse» in cui poco alla volta investirono i vertici dei mandamenti di Pagliarelli (attraverso i fratelli Camilleri, emanazione di Francesco Paolo Barone), di Porta Nuova (fu allora Totuccio Milano ad aprire la cassa del clan), ma anche di singole famiglie come Corso dei Mille, Palermo Centro e addirittura il mandamento di San Lorenzo, dove Carlo Biondino (figlio dell’ergastolano Salvatore, l’autista di Totò Riina), si tuffò nell’affare con una ditta di pubblicità a cui vennero affidati tutti i lavori di predisposizione di agenzie e corner riconducibili a Vincenzo Fiore e a Salvatore Rubino.
V. M.
Giornale di Sicilia, 13 marzo 2021

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