domenica, marzo 28, 2021

L’italiano di Dante come risorsa per aprirsi al mondo

Dante Alighieri

NICOLA FILIPPONE

Le celebrazioni per ricordare i settecento anni dalla morte di Dante sono certamente un’occasione per conoscere meglio il Sommo Poeta, attraverso convegni scientifici, approfondimenti scolastici, programmi televisivi, pubblicazioni varie a lui dedicate. 

Gli esperti pensano, e soprattutto auspicano, che queste iniziative possano servire ad appassionare maggiormente i più giovani allo studio della letteratura, all’amore per la poesia, all’interesse per il Medioevo, l’epoca storica nella quale l’Alighieri è vissuto. L’Accademia della Crusca spera anche che in quest’anno si riscopra il piacere di parlare e scrivere in italiano, evitando, o riducendo, il ricorso alle parole straniere, che un tempo si chiamavano «barbarismi» e che invece oggi fanno tendenza. 

Il Presidente del Consiglio Mario Draghi, recentemente, ha pure sollevato la questione, chiedendosi il motivo di usare termini inglesi quando esiste il corrispettivo in italiano. 

In realtà, nel dibattito rinascimentale sulla lingua, Pietro Bembo suggeriva di considerare come modelli da seguire Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa. 

Ciononostante, sono innumerevoli i vocaboli entrati nel nostro lessico e riconducibili al poeta fiorentino. 

Alcuni abbastanza frequenti, come «babbo», «rubino», «inanellare», altri più ricercati come «incielare», «trasumanare», «imparadisare». Dalle opere dantesche derivano pure locuzioni piuttosto familiari: «mille miglia», «dolenti note», «il ben dell’intelletto»; oppure espressioni forbite quali «dolce stil novo», essere «sesto tra cotanto senno», e tante altre. 

Il legittimo e dovuto omaggio al Divin Poeta non deve, però, distogliere l’attenzione da un dato che non si può trascurare e sul quale sarebbe bene che le agenzie educative e, in generale, le istituzioni scolastiche riflettessero attentamente. 

Il «bel paese dove il sì suona» risulta oggi al quarto posto della classifica dell’analfabetismo funzionale, dopo Indonesia, Cile e Turchia. Questo significa che il 28% degli Italiani, tra i 16 e i 65 anni, ancorché sappia leggere e scrivere, è «incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità». Di essi, uno su tre ha più di 55 anni, il 10% è disoccupato e, tra i lavoratori, il 60% vive al Sud e al Nord Ovest. Esiste anche un analfabetismo funzionale di ritorno, che comprende coloro che, non esercitando le capacità e le competenze acquisite, col tempo le riducono notevolmente. 

A questo proposito, hanno suscitato notevole scalpore le risposte errate di concorrenti televisivi – e quindi dotati almeno di un diploma di scuola superiore – a semplicissime domande di storia, di letteratura o di grammatica. 

Un’altra questione serissima è la dispersione scolastica, che in Italia è del 15%, con picchi del 37% in Sicilia e del 37,4% in Calabria, che mantiene il primato negativo. 

Neanche i risultati dell’Invalsi sono incoraggianti, ossia il rilevamento effettuato annualmente in tutte le scuole, basato su tre prove: italiano, matematica e lingua straniera. Se consideriamo soltanto quelle assegnate alle quinte classi della secondaria di secondo grado, a livello nazionale consegue un risultato positivo il 65,4% degli studenti per l’italiano e il 58,2% per la matematica. Il 51,8% ottiene il grado B2 in inglese, ma nella prova di ascolto scende al 35%. 

Al Sud i dati peggiorano ancora: in Sicilia si aggiudicano il test d’italiano 5 alunni su 10, 4 su 10 quello di matematica, il 34,8% raggiunge il B2 nella prova di lettura e appena il 14,8% in quella di ascolto. 

Senza entrare nel merito di questi dati, essi lanciano comunque un allarme da non sottovalutare, che il nostro sistema d’istruzione saprà certamente affrontare e risolvere. 

Nelle more ci permettiamo, tuttavia, di suggerire un approccio meno «interessato» allo studio.

Negli ultimi tempi si è preferito incentivarlo, proponendo ai ragazzi un riscontro pratico e utile immediato. 

Questa modalità, che ha indubbiamente avuto degli aspetti positivi e proficui, rischia però di includere la cultura in quello che Pasolini definiva «il ciclo produzione-consumo», in cui «i centri creatori, elaboratori e unificatori del linguaggio» non sono più le scuole o le università ma le aziende. 

Forse è arrivato il momento di spiegare ai giovani l’importanza intrinseca del sapere il cui fine, come scrive Dante nel Convivio, «è quella eccellentissima dilezione che non pate alcuna intermissione o vero difetto, cioè vera felicitade che per contemplazione della veritade s’acquista».

Giornale di Sicilia, 28 marzo 202

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