lunedì, luglio 10, 2023

Suarez aveva 88 anni. Addio nobile Luisito, l’architetto di Herrera che fece grande l’Inter


DI MAURIZIO CROSETTI

Suarez era la perfezione. Il Barça vendendolo rinnovò il Camp Nou. Ai compagni spaventati da Puskas disse: “Mica vorrete l’autografo?”

Chiusa la carriera da calciatore, Suarez ha allenato: era il ct della Spagna a Italia ’90. Poi gli anni in tv da commentatore 

I nostri padri e i nostri nonni raccontavano Suarez (“Ah, Luisito Suarez…”) come si prova a narrare la perfezione, come se esistessero davvero le parole per dire chi furono Michelangelo e Mozart, George Best e Vittorio Gassman. Perché, signori, qui si dice addio a uno dei più forti calciatori di tutti i tempi, il numero 10 della Grande Inter di Herrera, il primo e unico Pallone d’Oro spagnolo, un regista che sapeva segnare, dribblare, lanciare corto ma soprattutto lungo: passaggi al volo di 50 metri sui piedi del compagno in corsa. E che personaggio, che persona. Ironico, gentile,

disponibilissimo con tutti. Prima arrivava il suo sorriso e poi, negli ultimi anni con l’aiuto di un bastone, quando si presentava un po’ zoppicando, ecco lui, don Luis il leggendario. Ma se provavi a fargli notare il volume di quella leggenda, lui ti guardava come un meccanico che sta per smontare un motore e così lasciavi perdere. 
Luis Suarez Miramontes, classe 1935, più che altro classe immensa, era figlio di un macellaio galiziano di La Coruña, e quando passò al Barcellona qualcuno storse un po’ il naso di fronte al piccoletto, una specie di diminutivo dei sogni, “Luisito” una volta e per sempre. L’allenatore Ferenc Platko, ungherese, fece portare un punching ball nello spogliatoio ma Suarez la prese male, «sono venuto qui per giocare a calcio, mica per fare a cazzotti», così levarono di mezzo l’arnese. Con i blaugrana, “El gallego dorado” vinse due campionati, una Coppa delle Fiere e il Pallone d’Oro nel 1960, prima volta per uno spagnolo. Allenatore, Helenio Herrera. Quando il Mago andò all’Inter, chiese al presidente Angelo Moratti di acquistargli il regista: «Ha il palleggio di Corso, il dribbling di Sivori e il tiro di Altafini, me lo compri e vinciamo tutto». Andò esattamente così, e con i 250 milioni di lire incassati, una cifra gigantesca per quei tempi, il Barcellona finì il terzo anello e costruì il tetto del nuovo Camp Nou: uno stadio finanziato da Suarez. 
Diceva Herrera: «Se non sapete cosa fare del pallone, datelo a Luis». In Spagna, era stato un 10 alla Platini, rifinitore e goleador. Nell’Inter, il Mago lo volle regista classico: questo lo fece segnare un po’ meno (comunque, 55 gol in 333 partite), ma permise alla squadra un ordine e un disegno altrimenti irraggiungibili. Non per nulla, Alfredo Di Stefano aveva battezzato Luisito “el Arquitecto”. Suarez arrivò a Milano a 26 anni compiuti, portando nel gruppo quell’esperienza che agli altri mancava. Prima della finale di Coppa dei Campioni a Vienna contro il favoloso Real Madrid, 27 maggio 1964, la prima delle due vinte in nerazzurro, i compagni andarono da Luis per parlargli di quel Di Stefano appena visto da vicino («È alto due metri!» sussurrava Mazzola) e naturalmente di Puskas («Il Colonnello, il Colonnello… », ripeteva Picchi), e allora Suarez tagliò corto: «Siamo venuti qui per batterli, non per chiedergli l’autografo». 
Erano tempi inimmaginabili. Con i primi guadagni veri, Luisito non si comprò una fuoriserie o un orologio tempestato di diamanti, ma le quote di un maglificio, perché allora il calcio sostituiva un lavoro per qualche anno soltanto, poi bisognava pensare al domani. E quando Luisito venne liquidato dall’Inter, nel 1970, perché il nuovo allenatore Heriberto Herrera, l’altro Herrera, sosteneva che lui e Corso non potessero giocare insieme («Meno male che non è arrivato prima, cosi qualche trofeo abbiamo fatto in tempo a vincerlo», risposte sarcastico Luis), il domani diventò la Sampdoria dove il galiziano continuò a divertirsi, già pensando che gli sarebbe piaciuto fare l’allenatore, pur sempre un modo diverso di essere architetti. E lo farà anche in club importanti e gloriosi come la sua stessa Inter, il Cagliari, la Spal e il Como, e un giorno gli daranno la panchina della nazionale spagnola che Luis guidò a Italia 90, in un momento minore della scintillante storia. I risultati non vennero, ma alle conferenze stampa alle porte di Udine i cronisti si rivolgevano a Suarez con la deferenza dovuta a un nobile patriarca. 
Quanto lo hanno amato, i nostri papà e i nostri nonni, non necessariamente interisti. Perché non si poteva non essere conquistati dall’apparente semplicità dei suoi gesti in purezza, quei passaggi da est a ovest, da ovest a est, valicando qualunque confine con la precisione di una carta millimetrata. E quanta malinconia, adesso, nel salutare per sempre un omino gentile, riascoltando a occhi socchiusi il suo passo asimmetrico in corridoio, piede, bastone, piede. Un inganno dei sensi. Il corpo forse zoppicava, ma il signor Luisito era ancora trasparente e leggero come un aquilone. 


La Repubblica, 10 luglio 2023

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