domenica, luglio 16, 2023

Intervista a Roberto Scarpinato: “Ci stiamo avviando verso una deriva ungherese”

Il sen. Roberto Scarpinato

Le iniziative del governo Meloni nell'ambito della giustizia compongono un quadro assai inquietante, che fa fare al nostro Paese molti passi indietro sul terreno dello Stato di diritto, secondo Roberto Scarpinato.

Senatore Roberto Scarpinato, lei oggi è parlamentare eletto come indipendente nelle fila dei 5Stelle ma in qualità di magistrato con una lunghissima esperienza nel campo delle indagini antimafia conosce molto bene il sistema giudiziario italiano. Che idea si è fatto degli interventi – fatti e programmati – del governo Meloni in questo campo?
Io credo che bisogna evitare di guardare le iniziative in campo legislativo di questo governo una alla volta, bisogna invece considerarle nel loro insieme. Se si accostano le tessere l’una all’altra, quello che viene fuori è il disegno complessivo di una maggioranza che intende approfittare

dei rapporti di forza contingenti per regolare i conti col passato e per riconfigurare il futuro in senso oligarchico e classista. Un work in progress di lungo respiro e ad ampio spettro che si declina in modo più appariscente nel settore della giustizia, ma che in realtà è proiettato a investire trasversalmente l’intero assetto costituzionale dello Stato ed i rapporti sociali. L’impronta regressiva di questa maggioranza è stata subito chiara con il decreto anti-Rave, il primo decreto approvato dal nuovo governo, che nella sua originaria versione introduceva una norma penale che ufficialmente serviva semplicemente a criminalizzare i raduni musicali non autorizzati, ma che era strutturata in un modo tale da potersi trasformare in un vero e proprio manganello giudiziario liberticida e da essere usato per sanzionare penalmente tutte le manifestazioni di dissenso sociale e politico non autorizzate, prevedendo la messa in campo di un impressionante arsenale repressivo: uso di intercettazioni anche mediante il trojan, l’arresto non solo degli organizzatori ma anche quello di massa di centinaia di semplici partecipanti, l’applicazione di misure antimafia. La polizia diventa l’asse fondamentale di «governance» quando il consenso non può più essere assicurato da salari, redditi e consumi, continuamente bloccati e tagliati a causa di politiche economiche antipopolari che sviliscono e precarizzano il lavoro, dal programmato smantellamento dello stato sociale a favore di privatizzazioni. Questa pulsione autoritaria sottotraccia viene da lontano e resta latente pronta a riespandersi se non trova limiti. Vorrei ricordare al riguardo un episodio che mi sembra emblematico. Quando il 14 luglio 2017 fu introdotto il reato di tortura a seguito della sentenza di condanna del nostro paese emessa dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo per le violenze ed i pestaggi posti in essere dalle Forze di Polizia alla Scuola Diaz in occasione del G8 svoltosi nel luglio del 2001 a Genova, Giorgia Meloni ne propose l’abrogazione dichiarando che il reato di tortura impediva agli agenti di fare il proprio lavoro e la sua parte politica definì testualmente tale nuovo reato “una infamia”.
Il secondo momento rivelatore dell’animus classista al quale ho accennato, è stato in occasione della riforma della normativa che riguarda il c.d. ergastolo ostativo. La Corte Costituzionale aveva imposto la riforma limitatamente ai condannati all’ergastolo per i reati di mafia, statuendo che doveva essere legislativamente prevista la possibilità del loro accesso al beneficio della liberazione condizionale anche in assenza di collaborazione, purché venisse provata la cessazione della pericolosità e l’avvenuta rieducazione. La Corte non aveva invece toccato la parte della legge che in assenza di collaborazione con la giustizia precludeva l’accesso ai benefici penitenziari anche ai condannati a pene temporanee per una serie di altri reati, tra i quali quelli più gravi in materia di corruzione. Ebbene con un colpo di mano questa maggioranza ha escluso dall’applicazione della legge i colletti bianchi condannati per avere fatto parte di associazioni a delinquere finalizzate alla corruzione – i c.d. comitati di affari, le c.d. cricche – vere e proprie razziatrici di denaro pubblico, lasciando invece in vigore la stessa legge per le associazioni a delinquere di piccoli contrabbandieri dediti al traffico di tabacchi. Un esempio emblematico di doppio binario classista del diritto penale. Guanti di velluto per lorsignori frequentatori dei piani alti della piramide sociale e pugno di ferro, furore giustizialista per quelli che si collocano nei piani inferiori. Per questi motivi ho chiesto in Senato a Nordio come facesse ad autodefinirsi un campione di cultura liberale e garantista. Gli ho chiesto se per caso fosse affetto da una sindrome di sdoppiamento della personalità da dott. Jekyll e Mr. Hyde che lo induceva ad essere ferocemente giustizialista quando autori del reato sono persone comuni, e ad indossare poi l’anima liberale garantista, strappandosi le vesta, quando autori di reati sono quelli delle classi superiori.


In questo quadro, come si inseriscono le recenti proposte di riforma sul reato d’abuso d’ufficio e del traffico d’influenze?
Entrambe fanno parte a mio parere della costruzione per tappe di un diritto penale che mira ad azzerare i rischi e i costi penali per le condotte devianti dei colletti bianchi. Attualmente, dopo l’ultima riforma del 2020, l’abuso d’ufficio è un reato soltanto in ipotesi limitatissime, cioè quando viene violato l’obbligo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti dalla legge, e nei casi in cui vengono violate regole di condotta espressamente previste dalla legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità. Tutto l’amplissimo spettro dell’attività ammnistrativa discrezionale è stata esclusa dall’area di applicazione della norma. In sostanza il reato è stato lobotomizzato determinando così nel 2021 un aumento dell’85 % delle archiviazioni. Quello del 2020 è il terzo intervento legislativo riduttivo dopo quelli del 1990 e del 1997 che già avevano determinato un innalzamento dei casi di archiviazione. Non è vero che il numero ridotto delle condanne attesta l’inutilità del reato. Il numero ridotto è dovuto piuttosto alle continue amputazioni della sua area di applicazione che nel tempo hanno privato di sanzione penale  una ampia fascia di abusi come, ad esempio,  quelli che pur non essendo finalizzati a procurare a se o ad altri un ingiusto  vantaggio patrimoniale, tuttavia realizzano indebiti favoritismi uccidendo la meritocrazia e premiando la fedeltà a padrinati politici, o finalizzano il potere pubblico alla creazione di enormi reti clientelari o ancora alla lottizzazione delle istituzioni. Abolire del tutto questa norma anche nell’attuale  forma ridotta significa arrivare al punto di  legittimare il conflitto di interesse perché non sarebbe più  sanzionato penalmente il comportamento di un amministratore che viola il dovere di astenersi in presenza di un interesse personale confliggente con quello pubblico,  ed equivale a legittimare l’abuso come pratica corrente dell’esercizio pubblico anche quando assume la forma plateale della violazione di norme cogenti che non lasciano margini di discrezionalità. Peraltro tali comportamenti verrebbero  legittimati  in una fase storica come questa, in cui è stata enormemente dilatata la discrezionalità degli amministratori pubblici prima per la pandemia e ora per il Pnnr consentendo per esempio l’espletamento di appalti semplicemente con la chiamata di cinque ditte per le gare fino a cinque milioni di euro e di dieci ditte per le gare sino a dieci milioni di euro. Abolire anche quello che resta del reato di abuso d’ufficio significherebbe di fatto abolire qualsiasi residuo controllo penale  sulle scelte degli amministratori pubblici, favorendo quelle  condotte che invece di premiare il merito, la concorrenza,   premiano l’appartenenza al clan, alla famiglia, al partito politico, alla massoneria ecc.
A ciò si aggiunga che la Commissione europea ha approvato nel maggio di quest’anno una direttiva che impone ai paesi della UE  di prevedere nei loro ordinamenti il reato di abuso di ufficio proprio perchè individuato come condotta gravemente  distorsiva della gestione del potere pubblico  e proattiva di corruzione.


 In molti amministratori locali però concordano con l’abolizione di questo reato, perché dicono che la paura di esserne accusati li blocca nell’azione amministrativa?
Credo che vi sia molta disinformazione in tanti.  Ripeto che con la riforma del 2020 tutta l’attività amministrativa discrezionale che è quella che determina la paura della firma, non è più  sindacabile dal giudice  penale. Quindi francamente è un argomento che non sta più in piedi. Non c’è dubbio che l’attività amministrativa in Italia sia molto complicata, ma questo non è certo dovuto a un reato che cerca di tutelare l’interesse pubblico contro quelli privati. I problemi della macchina amministrativa italiana sono altri: mancano le competenze tecniche,  manca il personale specializzato e questo mette i sindaci in grandi difficoltà. Ma invece di percorrere la via maestra di investire nella pubblica amministrazione  potenziando  gli organici e  creando uffici centralizzati di supporto per i piccoli comuni, si preferisce scegliere la facile scorciatoria a costo zero di lasciare  i gravi deficit esistenti   e di lasciare mano libera, aprendo ampi  varchi all’indebita interferenza di interessi privati. In tal modo peraltro si crea una grave sovra esposizione personale dei sindaci che essendo titolari di una potere discrezionale fuori controllo, sono destinati a divenire  oggetto di pressioni e di intimidazioni  da parte di mafie, di comitati di affari, di lobby, di potentati  affinchè  pieghino i loro poteri al soddisfacimento di interessi privati.


E la modifica del traffico di influenze va nella medesima direzione?
Certamente. Anche lì, anziché mettere mano a una seria legge sulle lobby e sul conflitto di interesse, si dà di fatto semaforo verde ai lobbisti di ogni risma, ai procacciatori di affari e di voti, i quali non rischieranno niente se si adopereranno per far commettere il reato di abuso d’ufficio perché la riforma Nordio prevede che il reato di traffico di influenze illecite  non esiste se non è finalizzato alla commissione di un reato contro la pubblica amministrazione e dunque, se l’abuso d’ufficio non è più reato, neanche il traffico di influenza finalizzato all’abuso d’ufficio è reato. Nella stessa logica rientra poi anche il progetto di impedire l’uso delle intercettazioni per reati di corruzione. Come attestano tutti i magistrati e gli investigatori, è assolutamente accertato che si tratta di reati che godono di un’omertà blindata, superiore a quella della mafia, perché coloro che sono coinvolti nella corruzione hanno un reciproco interesse al silenzio. L’esperienza dimostra che soltanto attraverso le intercettazioni si riesce a portare a galla la corruzione. Come dicevo prima, se mettiamo insieme le tessere del mosaico, se uniamo i puntini  –  abolizione dell’abuso di ufficio, abolizione e ridimensionamento del reato d traffico influenza, divieto di utilizzazione dele intercettazioni per le indagini sulla corruzione,  abolizione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, e molto altro ancora di cui per ragioni di sintesi non posso fare menzione – si comprende quale siano il disegno complessivo e la direzione di marcia.

E poi c’è il capitolo che riguarda la magistratura.
Fa parte del work in progress al quale accennavo prima. È la meta finale per raggiungere la quale ci si muove su tre versanti tra loro interconnessi: la separazione delle carriere, l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale e la modifica della composizione del CSM  per portare il numero dei membri di nomina politica, ossia quelli scelti dal Parlamento, al 50%. Partiamo dalla questione dell’obbligatorietà dell’azione penale, la quale, se non è più obbligatoria, è discrezionale. E a discrezione di chi? È evidente che diventa quindi una scelta politica ed è evidente che colui che ha questo potere, il pubblico ministero, deve a quel punto essere sottoposto a un controllo politico, riportando indietro l’orologio la storia all’epoca precostituzionale, un’epoca nella quale gli scandali finanziari e bancari si concludevano tutti allo stesso modo, e cioè con l’assoluzione di tutti gli imputati proprio perché i pubblici ministeri erano condizionati dal potere esecutivo. Anche la separazione delle carriere fa parte dello stesso disegno per sottrarre autonomia al pm e sottoporlo al controllo dell’esecutivo. Nella stessa direzione  si muove la progettata abolizione dell’art. 107 comma 3 della Costituzione che, nel prevedere la distinzione dei magistrati solo per funzioni, ne rappresenta la massima garanzia di indipendenza, impedendo derive gerarchiche e verticistiche all’interno degli uffici giudiziari.

Al semplice cittadino potrebbe però sembrare ragionevole separare le carriere di chi indaga da quelle di chi giudica.
Questa idea si basa sul falso argomento che appartenendo alla stessa carriera i giudici sarebbero appiattiti sui pm. È la realtà dei fatti che smentisce l’assunto, perché nel 48% dei giudizi penali di primo grado l’esito è di assoluzione, il 45% di condanna, il resto ha esito misto. Non solo, ma se noi dovessimo ritenere che l’appartenenza alla medesima carriera condiziona la decisione dei giudici, allora dovremmo separare le carriere dei giudici di appello da quelle dei giudici di primo grado, perché i giudici di appello sono quelli che giudicano le sentenze di quelli di primo grado,  e la stessa cosa dovremmo fare per quelli della Cassazione che giudicano  le sentenze dei gradi inferiori. Il carattere strumentale di tale argomento si è palesato in modo evidente in questi giorni nei quali il Ministro Nordio, strenuo sostenitore della separazione delle carriere, ha censurato il comportamento del giudice per le indagini preliminari del tribunale di Roma perché invece di appiattirsi sulla richiesta di archiviazione formulata dal Procuratore della Repubblica per il sottosegretario alla giustizia  Andrea Del Mastro delle Vedove per il reato di rivelazione di segreti di ufficio, ha rigettato la richiesta imponendo l’imputazione coatta.  Il Ministro sta meditando ora se abolire pure il potere del giudice di rigettare le richieste di archiviazioni dei pubblici ministeri. Come si vede il problema vero,  celato dietro argomenti strumentali, non è affatto l’asserito appiattimento dei giudici  sui pm, ma piuttosto l’ intolleranza per l’indipendenza della magistratura e l’aspirazione a realizzare l’appiattimento delle decisioni dei giudici e dei pubblici ministeri sulla volontà della politica. Ulteriore manifestazione e cartina di tornasole di tale intolleranza è il procedimento disciplinare iniziato dal ministro Nordio nei confronti di giudici di Milano che avevano rigettato una richiesta del ministro di ordinanza di custodia cautelare in carcere per un cittadino straniero. Che io ricordi mai nella storia della Repubblica era accaduto che il Ministro utilizzasse lo strumento disciplinare perché dissentiva da una valutazione di merito della decisione adottata. Il codice disciplinare che prevede la tipizzazione degli illeciti disciplinari dei magistrati, esclude in modo categorico tale travalicamento dei poteri ministeriali proprio a garanzia dell’indipendenza di giudizio della magistratura. È evidente che se il Ministro o una autorità politica a seguito della separazione delle carriere prenderà il controllo dei pubblici ministeri, si giungerà ad una politicizzazione occulta dell’esercizio dell’azione penale, addomesticandola per quelli della propria parte politica e usandola come una clava per avversari e dissidenti. E’ esattamente  quello che è avvenuto in Polonia e in Ungheria – paesi guardati non a caso con ammirazione dall’attuale Presidente del Consiglio Meloni – come è documentato da un accurato reportage pubblicato da Tonia Mastrobuoni dal titolo “L’erosione” di cui consiglio la lettura per capire il destino che potrebbe esserci riservato. Aggiungo che l’analisi dei dati forniti dal Consiglio superiore della magistratura fa capire ulteriormente  con estrema chiarezza la strumentalità della proposta di separazione delle carriere.
Già attualmente le carriere sono  di fatto separate perché la legge limita ad una sola volta il mutamento di funzioni da requirente e giudicante e viceversa, sottoponendo per di più tale passaggio a rigorose condizioni, come il trasferimento in un ufficio  di  un’altra regione. Per questo motivo i mutamenti di funzione sono pochissimi.
I magistrati in servizio in Italia sono circa 9000. Dal dalla riforma Castelli-Mastella del 2006 sino al 2022, in media sono passati dalla funzione di giudice a quella di pm meno di venti magistrati all’anno (per un totale di 312 in 16 anni, di cui 61  verso la procura generale presso la Cassazione, ufficio nel quale non si fanno indagini); dalla funzione di pm a quella di giudice in media 28,5 magistrati (per un totale di 456, di cui  25 verso la Corte di cassazione).  In sostanza, il numero di passaggi dalla funzione giudicante alla funzione requirente ha coinvolto solo lo 2 magistrati su mille, quello inverso solo 3 su mille. Nel 2021 i trasferimenti di funzione sono stati solo 21. Con tutti i gravissimi problemi che abbiamo nella giustizia invece di occuparci di riforme che garantiscano ai cittadini una definizione celere dei processi, stiamo a discutere di  poche decine di magistrati su novemila?
La scarsissima partecipazione popolare al referendum del 12 giugno 2022 che aveva tra i quesiti anche quello della separazione delle carriere, dimostra come questo tema non sia affatto percepito come problematico dalla società civile  ed interessi in realtà solo determinate componenti del mondo politico e dell’establishment per motivi che non sono attinenti  alla corretta e efficiente amministrazione della giustizia. Aggiungo infine, per concludere su tale importante questione, che la comune cultura della giurisdizione, che attualmente impone una comune formazione – iniziale e permanente – del Giudice e del Pubblico Ministero, costituisce un argine potente contro ogni rischio di pericolose derive del Pubblico Ministero verso culture accusatorie di tipo poliziesco. Cambiare sarebbe in controtendenza con una lunga tradizione italiana, che è un importante modello di riferimento in ambito europeo.
Già nel 2000 con la risoluzione n. 19 , il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, organo di indirizzo politico, raccomandò a 47paesi membri di facilitare il passaggio dei magistrati tra le funzioni requirenti e giudicanti, e viceversa, perché questo serve a migliorare l qualità della cultura della giurisdizione.
Personalmente ho scelto di fare il pubblico ministero solo perché in Italia è un organo che condivide la stessa cultura del giudice ed ha quindi l’obbligo di accertare la verità e di ricercare le prove anche a favore dell’indagato, chiedendo la sua assoluzione. Un pubblico ministero che ha questa formazione culturale è la prima e  migliore linea di garanzia per il cittadino, perché  non essendo appiattito sulla polizia e su  una dimensione esclusivamente accusatoria, agisce con la cultura del giudice chiedendo egli stesso l’archiviazione in caso di mancanza di prove e di accertata non colpevolezza.
Non avrei mai fatto il pubblico ministero in un ordinamento diverso nel quale il pubblico ministero è, in sostanza, l’avvocato della polizia e soggetto alla direzione del Ministro della Giustizia o di altri organi di nomina politica.
La terzietà del giudice, fondamentale come condizione per la sua imparzialità, va attuata e rafforzata all’interno del processo, con una piena applicazione dei principi fissati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e non certo con soluzioni che ci allontanano non solo dalla nostra tradizione giuridica, ma anche dalle linee di tendenza più significative presenti nel panorama europeo e internazionale.

Quanto è preoccupante il quadro che sta tratteggiando?
Il settore giustizia è solo lo specchio e il laboratorio nel quale si declina un codice culturale e ideologico assolutamente distonico ai valori costituzionali, che permea in realtà un  progetto riformatore di stampo regressivo di ampio respiro destinato a investire nel tempo – se sarà realizzato –  l’intero ordinamento e l’assetto sociale. Le riforme in cantiere nei vari settori  rischiano di  allontanarci progressivamente  dai Paesi europei a democrazia più avanzata e di avvicinarci pericolosamente alle derive polacche e ungheresi. L’esperienza di questi due Paesi dimostra come oggi i colpi di Stato non si fanno più con gli eserciti ma attraverso riforme che gradualmente svuotano dall’interno le fondamenta  dello  Stato costituzionale  di diritto. E i due punti da cui si parte sono sempre gli stessi: magistratura e libera stampa. I politologi di Harvard Stefen Levitsky e Daniel Ziblatt nel libro “Come muoiono le democrazie”  hanno analizzato come dalla fine della guerra fredda, la maggior parte dei crolli dei regimi democratici non sono stati  causati dai militari, ma da leader eletti con una sequenza progressiva di riforme che seguono il seguente schema: a) abolire nella sostanza la regola fondamentale delle democrazie moderne della tripartizione dei   poteri legislativo, governativo  e giudiziario  in modo che rispondano ad unico padrone;  b) neutralizzare tutti i sistemi di controllo delle autorità indipendenti; c)  ridurre o azzerare tutti gli spazi di comunicazione e di visibilità dell’opposizione, controllando i media pubblici e privati anche grazie ad accordi con oligarchi padroni dei media, integrati nel sistema di potere; d) diffamare o opprimere   tutti i dissidenti; e)  modificare  le leggi elettorali in modo da garantire la perpetuazione del potere del governo in carica. Esattamente il metodo utilizzato in Polonia  dal partito Diritto e Giustizia, fondato dai gemelli Kaczynski, e da Orban leader di Fidesz, il  partito padrone dell’Ungheria. Questa maggioranza  è incamminata nella stessa direzione di marcia anche se con modi molto più sofisticati e felpati. II governo ha ormai assorbito il potere legislativo riducendo il Parlamento a camera di registrazione notarile delle sue decisioni.  Si tratta di un fenomeno iniziato da tempo ma che il governo Meloni sta accentuando in modo significativo producendo una media di circa quatto decreti legge al mese. Ha programmato riforme della Costituzione dirette a sottoporre la magistratura al controllo del governo. Mira ad  assumere  il controllo egemonico dei media televisivi di stato e ha già,  tramite gli eredi di Berlusconi ed altri oligarchi,  il controllo di settori strategici di altri importanti media. Ha  in programma di chiudere il cerchio  assumendo anche il controllo della Corte Costituzionale con la  nomina di quattro giudici che tra pochi messi ultimeranno il loro mandato. Tutto sembra muoversi nella direzione di una strisciante  disarticolazione del sistema di divisione e bilanciamento dei poteri e della preparazione del grande salto finale della costruzione di una repubblica presidenziale realizzando una  piramidalizzazione oligarchica del potere.

Micromega, 16 Luglio 2023

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