domenica, settembre 26, 2021

A proposito dei “pazzi” di Corleone: la storia non si fa con i “se”, ma...

Un momento della presentazione del libro “I pazzi di Corleone”

DINO PATERNOSTRO

La storia non si fa con i “se” e con i “ma”. Però, ieri sera, presentando al Cidma il libro di Ernesto Oliva “I pazzi di Corleone” (insieme a me e all’autore, sono intervenuti anche Claudio Di Palermo, vicepresidente Cidma, il sindaco Nicolò Nicolosi e Il giornalista Mario Midulla), non ho saputo trattenere una riflessione che adesso voglio condividere con i lettori. Se al processo di Bari del 1969 i mafiosi di Corleone alla sbarra (personaggi come Luciano Liggio, Totò Riina e Bernardo Provenzano) fossero stati condannati per i tanti omicidi commessi, la storia d’Italia sarebbe cambiata. Probabilmente non ci sarebbero stati tanti omicidi eccellenti. Non ci sarebbe stato l’assassinio del giudice Cesare Terranova e del suo fedele collaboratore Lenin Mancuso (proprio ieri - l’abbiamo ricordato - ricorreva il 42mo anniversario del sacrificio dei due servitori dello Stato).

Non ci sarebbero state le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Ma lo Stato allora non seppe proteggere né i primi  “pentiti” corleonesi e nemmeno i primi “testimoni di giustizia” di questa cittadina dell’entroterra palermitano, per cui lasciò minacciare nel famigerato carcere dell’Ucciardone pentiti come Luciano Raia; lasciò minacciare nella sua casa la moglie Maria Lanza; lasciò intimidire la vedova della guardia campestre Calogero Comaianni, Maria Paternostro, testimone oculare dell’assassinio del marito operato da Luciano Liggio e Giovanni Pasqua. 

Per salvarsi, Raia finse di essere smemorato e pazzo, la moglie ritrattò tutto e ai giudici non parve vero di poter assolvere boss e gregari per insufficienza di prove. La vedova Comaianni, intimidita e terrorizzata dalla paura che potessero far male anche al figlio Carmelo (pure lui testimone del delitto), interrogata in tribunale, ebbe qualche incertezza. E tanto bastò ai giudici per dichiararla inattendibile ed assolvere per insufficienza di prove i carnefici del marito. 

Questi fatti ed altro ancora ci racconta il bel libro del giornalista Rai Ernesto Oliva. L’abbiamo voluto presentare al Cidma (Centro Internazionale di Documentazione sulle Mafie e sul  Movimento Antimafia) per far conoscere una pagina dimenticata della storia di Corleone. La “vulgata” mafiosa tramanda che non ci sono mai stati pentiti tra “i corleonesi”, mafiosi duri e puri, che si spezzano ma non si piegano. Non è vero. Luciano Raia era un mafioso corleonese della cosca navarriana che, “per paura di essere scannato come un maiale”, volle parlare prima col vicequestore Angelo Mangano e poi con i magistrati Pietro Scaglione e Cesare Terranova. Confessò tanti crimini commessi dalla cosca avversaria, quella dei “liggiani, per salvarsi la pelle. Ma le cose, purtroppo per lui e per l’Italia civile, andarono diversamente. Allora non c’era una legislazione per i “pentiti” e per i “testimoni di Giustizia”, il codice penale ancora non prevedeva il reato di associazione mafiosa (il 416bis della futura legge La Torre), erano di più i pezzi dello Stato che sottovalutavano la mafia (o flirtavano con essa), che quelli che la combattevano con determinazione e coraggio. 

È vero, la storia non si fa con i “se” e con i “ma”. E la mafia ha potuto impunemente proliferare, infiltrare lo Stato, uccidere, intimidire, corrompere, commettere efferate stragi. 

Ci sono voluti personaggi come Pio La Torre, Cesare Terranova, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino (e il loro assassinio), per invertire la tendenza e interrompere la secolare impunità della mafia. Tanti lutti potevano essere risparmiati, ci dice Ernesto Oliva nel suo libro, “se...“. Ma la storia non si scrive con i “se”. E nemmeno con i “ma”. L’altro ieri, purtroppo, una pagina (triste) è stata scritta dai giudici della Corte d’Appello di Palermo, che hanno negato ogni “trattativa” tra Stato e mafia, assolvendo quegli imputati che in primo grado invece avevano subito dure condanne, perché “traditori” di quello Stato che avrebbero dovuto servire. 


Presentazione del libro di Ernesto Oliva “I pazzi di Corleone“. (Descrizione libro - fonte ibs.it)

*Luciano Liggio, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano sono stati gli artefici di una stagione di violenza mafiosa che ha segnato con stragi ed omicidi la storia contemporanea della Sicilia e dell'Italia. A loro si devono i delitti di numerosi rappresentati delle istituzioni e l'eredità di un indelebile marchio di omertà attribuito a Corleone. Negli anni di ascesa criminale dei liggiani, numerosi corleonesi invece diedero prova di credere nella forza della denuncia, affidando allo Stato la speranza di potersi affrancare dalle logiche di un potere vessatorio e sanguinario. Il loro tentativo fallì perché quello Stato non fu capace di tutelare e valorizzare il loro contributo, vanificando così la possibilità di stroncare sul nascere la violenza dei liggiani. Costretti dai mafiosi a ritrattare le loro accuse, alcuni di questi testimoni furono addirittura indotti a simulare la follia. Ancor oggi, i protagonisti dimenticati di quella tradita capacità di opposizione alla regola dell'omertà vengono da pochi ricordati come "i pazzi di Corleone". Come scrive Umberto Santino nella sua prefazione, l'Autore «con queste pagine ha voluto tornare indietro e riscoprire vecchi documenti raccolti a suo tempo dalla Commissione antimafia. Ed è bastato leggere quelle carte per scalzare luoghi comuni e inveterati stereotipi...». 


ALBUM FOTOGRAFICO 











Cesare Terranova e Pio La Torre





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