lunedì, dicembre 18, 2023

MAXI-PROCESSO: GIORDANO E MINEO, EROI SENZA PASSERELLE


Trentasei anni fa, era il 16 dicembre del 1987, nell'aula bunker dell'Ucciardone a Palermo, il presidente Alfonso Giordano lesse il dispositivo della storica sentenza che concludeva il Maxiprocesso di primo grado a Cosa Nostra: 346 condannati e 114 assolti; 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. 

Riproponiamo l'articolo che Piero Melati scrisse il 12 luglio 2021 per la scomparsa del presidente Giordano, ricordando anche il direttore dell'aula bunker Vincenzo Mineo


di PIERO MELATI


Il presidente del Maxiprocesso a Cosa Nostra, Alfonso Giordano, è morto a Palermo a 92 anni, appena poco dopo la scomparsa di un altro eminente siciliano, Vincenzo Mineo, il custode giudiziario di quella Aula Bunker dove il grande “processone” si era celebrato in mondovisione, nell’anno di grazia 1986. Un destino parallelo legava dunque questi due siciliani a quell’evento e a quel luogo, che hanno cambiato la vita di una città e la storia di un paese. 

Il Maxiprocesso aveva segnato profondamente le loro esistenze, al pari di quelle di tanti di noi. E’ stato indubbiamente il dibattimento italiano del secolo. Ma non solo. Quella maratona, aperta il 10 febbraio dell’86 e chiusa il 16 dicembre dell’87, ha segnato uno spartiacque anche culturale, psicologico e di costume nelle pur secolari vicende dell’Isola. Una rivoluzione profonda, paragonabile soltanto ad altri eventi siciliani di portata storica.

Eppure questi due uomini, protagonisti assoluti di quella stagione, non erano “eroi”. Non almeno secondo l’accezione che si è voluto dare a questo sostantivo negli anni a venire, quando quel tempo del cambiamento e del coraggio è stato trasformato in una specie di era mitologica, lontana da noi anni luce, dove nuovi personaggi alla moda si sono arrogati il diritto di rappresentarne drammi, tragedie, riscatti. In questo nostro tempo viziato da impostura, Giordano e Mineo non hanno battuto passerelle, non hanno cercato visibilità, non hanno svenduto al rito delle celebrazioni la propria esperienza. Sono stati “eroi”, semmai, con tutte le umane contraddizioni, in tutt’altra accezione: hanno fatto la cosa giusta quando questa è stata necessaria. E in tal modo, indubbiamente, ci sono stati maestri.

Qualche anno fa, forse proprio per questa sua assenza di “protagonismo”, il cerimoniale si era addirittura dimenticato di invitare il presidente del Maxiprocesso alle celebrazioni per il venticinquennale delle stragi del 1992. In quei giorni presentavo un mio libro uscito per l’editore Laterza a “Una Marina di Libri”, la manifestazione di editoria indipendente che si svolgeva all’Orto Botanico e che poi, per tutt’altri casi, avrei diretto per tre anni. Così, a titolo di parziale compensazione a quella imperdonabile dimenticanza, invitai all’ultimo momento Alfonso Giordano a presentare il libro, insieme al giudice Giuseppe Di Lello e al professor Matteo Di Gesù. Accettò subito e venne, perché era un uomo generoso e perché avevamo un rapporto particolare, maturato proprio nei mesi del Maxiprocesso.

La storia è nota ma è sempre bene ricordarla. Il Maxiprocesso rischiò di non potersi celebrare, tra le altre cose, anche perché ben dieci magistrati avevano rifiutato di presiedere la corte. Lui, al contrario, accettò. La strada del dibattimento era carica di insidie: gli imputati tentarono di boicottarne l’inizio in ogni modo, finché non venne presentata dai legali addirittura una istanza di ricusazione del presidente della corte. L’istanza venne poi respinta dalla corte d’appello, ma fu un momento di estrema tensione. Poteva saltare tutto. Nell’occasione, svestendo i panni dei cronisti, io e il collega Nicola Lombardozzi, che seguivamo il Maxiprocesso per il giornale L’Ora, scrivemmo un telegramma al presidente. Non entrammo ovviamente nel merito delle contestazioni giuridiche, ma gli offrimmo - per quel che valeva - solidarietà e lo invitammo a tenere duro. Ricordavamo le parole che, prima di venire assassinato, aveva pronunciato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, a proposito dell’isolamento. Conoscevamo fin troppo bene Palermo e i suoi meccanismi, quando dalle fucine dell’inferno si prepara la delegittimazione di una futura vittima, perché la mafia poi possa colpirla.

Da giornalisti non avremmo dovuto? Bisogna ricordare il contesto. In quell’aula, negli anni precedenti, nei pochi anni a venire, prima che tutto questo si trasformasse in uno spettacolo mediatico per “professionisti”, noi cronisti non eravamo neutrali. Non potevamo esserlo. C’era una guerra in corso. E chi predicava obiettività e neutralità, stava spesso dalla parte del regime precedente, quello guidato da Cosa Nostra siciliana. Il presidente ci rispose con una lettera garbata e cordiale, nella quale diceva di avere apprezzato la nostra solidarietà. Come il processone poi si concluse, anche grazie al polso fermo del galantuomo che lo presiedeva, è storia nota: 19 ergastoli e pene detentive per 2665 anni di carcere. Giordano aveva dovuto affrontare 475 imputati, duecento avvocati, la deposizione di Tommaso Buscetta e degli altri pentiti, la lettura integrale in aula degli atti istruttori richiesta dalla difesa, le rivelazioni di Luciano Liggio sul golpe Borghese, l’omicidio del piccolo Claudio Domino. Aveva subito per mesi pressioni enormi. L’ultimo giorno del dibattimento, prima che la corte si ritirasse in camera di consiglio, Michele Greco il “papa” della mafia, arrestato da latitante a Maxiprocesso in corso, prese la parola e gli augurò “la pace eterna”. Si narrava che il presidente traesse serenità dall’abitudine di praticare esercizi yoga e coraggio da un Winchester che teneva poggiato al muro, come gli sceriffi dei film western. Ma non va neppure sottovalutato che, dietro la naturale e spontanea gentilezza di signore di altri tempi, il presidente Giordano mascherava una tempra da samurai. Noi cronisti in lui cominciammo ad apprezzare un altro tipo di magistrato, differente da quelli cui eravamo più abituati in quegli anni: meno “scorta e distintivo”, forse, ma ugualmente incorruttibile e pervicace come una goccia che scava la roccia. 

Poiché la Sicilia sa essere insieme tutto e il contrario di tutto, Giordano tanti anni dopo aveva gioito quando il figlio Stefano, professione avvocato, aveva vinto in sede europea la causa in difesa di Bruno Contrada, il superpoliziotto tante volte dipinto dall’Antimafia come il protagonista di tutti i mali. Contraddizioni? Per lui nemmeno un po’. Il suo senso della giustizia e dell’umanità lo aveva espresso in un racconto che aveva scritto e pubblicato, dedicato al pentito Stefano Calzetta. Calzetta era finito nelle maglie del Maxiprocesso di sua volontà, deciso a rivelare quel che sapeva dei mafiosi, le cui gesta però conosceva soltanto marginalmente. Aveva ritrattato, confermato, ritrattato ancora, a seconda del grado di minacce che riceveva. Alla fine, disperato, solo, allontanato dalla famiglia, si lasciò morire di freddo e alcolismo, davanti ai giardini della questura di Palermo. La sua storia aveva lasciato il segno in Giordano, che lo aveva conosciuto bene. Forse dentro vi vedeva, con maggiore compiutezza che nelle indagini giudiziarie, ma certamente con meno possibilità di redenzione, le ferite profonde e le contraddizioni della sua terra, alla quale aveva offerto se stesso nel momento del bisogno, ma della quale non ignorava i lati oscuri e le disperazioni irredimibili.

Come Vincenzo Mineo, del resto. Stessa stoffa di umanità del siciliano (raro) che non conosce cinismo. Negli ultimi mesi avevamo dialogato spesso, durante il lungo lockdown. Vincenzo insisteva che, appena possibile, tornassi a Palermo a presentare “La notte della civetta”, libro terminato prima che esplodesse la pandemia per Zolfo editore, e che tenta di raccontare un pezzo di Palermo. Tra le altre cose, Vincenzo voleva che parlassimo in pubblico della storia di una generazione falcidiata dall’eroina che usciva dalle raffinerie siciliane di droga, negli anni precedenti al Maxiprocesso di Palermo. Finalmente avevamo fissato un appuntamento: il 15 luglio alle 18, a Villa Filippina. Ma nel frattempo Vincenzo è andato via. Perciò avevo deciso di dedicargli questa data. Oggi vi aggiungo anche il ricordo del presidente Alfonso Giordano. Lui e Vincenzo sono legati dal Maxiprocesso e dall’Aula Bunker. E per questo, il 15 luglio, a Palermo, vorrei ricordarli insieme. Ci sarà anche Fiammetta Borsellino, che ringrazio di cuore. Quattro giorni dopo sarà anche l’anniversario della strage di via D’Amelio.


L’Ora, Edizione straordinaria, 16/12/2023

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