martedì, dicembre 12, 2023

Non è (solo) patriarcato, ma neomaschilismo individualista e neoliberista


Antonio Minaldi

I recenti fatti di cronaca e il ripetersi di casi di femminicidio, l’unico tipo di omicidio che non è in calo nel nostro paese, hanno riaperto il dibattito sul patriarcato e sulla battaglia per la parità di genere. 

Ma la semplificazione degli slogan e l’impellenza delle mobilitazioni forse non rendono conto in maniera esaustiva delle peculiarità della situazione in atto. Il patriarcato in fondo ha più di 10.000 anni di storia, essendo riferibile alla stanzialità e alla nascita dell’agricoltura, e poiché nulla si ripete identico nel tempo, bisogna capire a cosa ci riferiamo oggi, soprattutto rispetto ai processi che caratterizzano la modernità capitalista. 

L’ultima grande cesura nella storia dell’Occidente capitalista è avvenuta tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta con la fine dei cosiddetti trenta gloriosi (1945- 1975) e con l’affermarsi della contemporaneità neoliberista. Il precedente periodo, caratterizzato dal modello di industrialismo fordista, dal compromesso keynesiano e dalla sfida dell’ipotesi socialista, nasce e si sviluppa con la fine della Grande Guerra e con la rivoluzione d’ottobre, e rappresenta, come vedremo, l’ultimo grande periodo in cui l’organizzazione sociale si fonda sui valori e sulle strutture del patriarcato nella sua forma più tipica e tradizionale.

Il grande protagonista di questo periodo è l’operaio fordista, che vive, entro lo scontro competitivo tra modello capitalista e modello socialista, la sua condizione duale e “schizofrenica”. In quanto singolarità, egli è schiavo della catena di montaggio che lo aliena da sé, e lo pauperizza ed espropria di ogni capacità creativa ed intellettuale, rendendolo schiavo della macchina. Ma in quanto “classe” egli è posto (almeno ipoteticamente) nella condizione del soggetto collettivo che viene considerato come il motore dell’organizzazione sociale esistente e di ogni possibile cambiamento. L’ipotesi socialista, in verità, non propugna nessuna vera rivoluzione sociale, quanto piuttosto una rivoluzione esclusivamente politica. L’idea di fondo è in sostanza quella che il modello di società capitalista fondato sulla grande impresa fordista, può fare a meno degli stessi capitalisti, affidando la guida della società alla classe-partito, senza sostanziali mutamenti strutturali, se non quelli legati a processi di razionalizzazione produttiva, che vedono il superamento della “anarchia di mercato” entro una economia pianificata e centralizzata. 

È evidente che entrambe le ipotesi in gioco, quella del capitalismo a mediazione keynesiana e quella del socialismo sovietico, si fondavano sullo stesso modello industrialista e crescentista, caratterizzato dal ruolo centrale e ineludibile della divisione capitalistica del lavoro, che dell’organizzazione sociale rappresentava marxianamente il dato strutturale e costitutivo.

Ai fini del nostro ragionamento va ora evidenziato come la divisione capitalistica del lavoro, sin dal suo nascere, ma segnatamente nell’epoca fordista, prima ancora che sulla distinzione tra lavoro astratto e lavoro concreto e su quella tra lavoro materiale e lavoro intellettuale, si è fondata sulla netta separazione tra lavoro produttivo-alienato (considerato come prerogativa maschile) e lavoro riproduttivo-privatizzato di stampo femminile. Solo il lavoro maschile veniva retribuito, mentre il lavoro femminile veniva affidato al controllo del maschio padrone.  L’operaio bianco, maschio e pater familias, è il protagonista dell’industrialismo fordista-socialista, perfettamente all’interno della più classica tradizione patriarcale (benché vada ricordato che le donne – contadine, operaie, collaboratrici domestiche, operatrici culturali – hanno subito per secoli e ancora subiscono doppio sfruttamento, svolgendo doppio lavoro, produttivo e riproduttivo, e subendo oppressione al contempo di genere, di classe e di etnia, come ci ricorda Angela Davis).

Con gli anni Sessanta del secolo passato cambia tutto. Dapprima in senso positivo, grazie alle grandi lotte di massa che scuotono il mondo. Ai nostri fini ricordiamo le battaglie del nuovo proletariato che rifiuta le logiche lavoriste, e quelle del nuovo movimento femminista contro il patriarcato e per l’uguaglianza di genere, ma anche, e forse ancora più significativamente, della scoperta di un femminile, sempre occultato nella storia, ed ora considerato da liberare.

La reazione del comando capitalista non si farà attendere. Non si tratta soltanto di contrastare i movimenti di lotta e le nuove soggettività, ma anche di rimettere in moto un processo di accumulazione che le stesse politiche keynesiane di ridistribuzione della ricchezza avevano messo in discussione.

La vecchia fabbrica fordista viene smantellata, dapprima grazie alle delocalizzazioni, poi attraverso nuovi processi di organizzazione del lavoro e allo sviluppo di nuove tecnologie che approderanno alla informatizzazione e alla digitalizzazione, ed oggi alle nuove prospettive legate all’affermarsi della IA.

Il rapporto di lavoro ne risulta profondamente mutato. La distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita tende a scomparire, in una nuova realtà in cui funzionali alla produzione di valore non sono più soltanto i corpi massificati nel loro essere asserviti alle macchine, ma soprattutto le capacità produttive delle intelligenze singolarizzate e capaci di dialogo performativo con le nuove reti informatiche.

In queste nuove condizioni i modi e le forme del controllo sociale abbisognano di nuove pratiche di autoriconoscimento da parte delle soggettività in gioco, che presuppongono il generalizzarsi di nuovi miti retorici. Al vecchio operaio della catena che si illudeva di trovare il riscatto sentendosi parte di una classe (potenzialmente) dirigente, si sostituisce oggi l’individuo isolato in lotta con il mondo e in cerca della propria autoaffermazione. È la trappola ingannatrice dello homo oeconomicus, imprenditore di se stesso e parte della lotta di tutti contro tutti, in cui solo i migliori ce la fanno, e chi è sconfitto piange le sue colpe e la sua impotenza. 

In questo passaggio da una postura dominante ad un’altra, va in frantumi la vecchia famiglia patriarcale e con essa molte delle stesse forme classiche del patriarcato storico, di cui gli attuali femminicidi potrebbero anche essere considerati come una estrema inconsulta reazione, al manifestarsi di uno stato di difficoltà. Ma ciò che certamente non va in cantina è quello che potremmo chiamare il modello antropologico maschile, fondato su relazioni umane e sociali stabilite sulla base dei rapporti di forza e sulle gerarchie di potere che ne conseguono, e che potrebbe essere considerato come la vera costante della storia umana, di cui lo stesso patriarcato potrebbe essere un prodotto specifico. Ad esso si può contrapporre un modello antropologico coniugato al femminile al cui centro stanno le relazioni umane fondate sul rapporto affettivo, l’aiuto reciproco e la costante attenzione nei confronti dell’altro.

Non è qui il luogo per approfondire l’argomento. Ci limitiamo a sottolineare come l’assunzione di una distinzione tra il maschile ed il femminile, a prescindere da qualunque valutazione di tipo ontologico, ha comunque un forte impatto euristico, che ci permette di distinguere tra una società fondata sul dominio (dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla donna) ed una società basata sulla cura e sulla reciprocità responsabile.

Una battaglia, non meglio definita, contro un patriarcato, già fortemente in crisi (almeno nel mondo occidentale), rischia di perdersi nella genericità impotente, e la stessa lotta per la parità di genere finisce col perdere di senso se non si precisa su quali valori essa deve realizzarsi. In una società che non metta in discussione i suoi forti assunti gerarchici e di dominio, da sempre legati ad un potere maschile che non si esprime solo nel sessismo ma anche nel razzismo, nel classismo, nel dominio imperiale ed in altro ancora, la semplice emancipazione della donna legata ad una idea puramente formale di uguaglianza, potrebbe assumere i caratteri di una “maschilizzazione” almeno di una parte del mondo femminile, come, d’altra parte, può essere facilmente dimostrato dal fatto che sempre più donne assumono posizioni di potere e di prestigio, nel nostro mondo occidentale. Fatto che ovviamente è in sé apprezzabile, se non fosse che purtroppo quasi sempre, non cambia niente rispetto alle ingiustizie e ai mali che ci affliggono, e molto spesso neppure di una virgola.

Noi ci battiamo per la parità e per l’emancipazione, ma pensiamo che il mondo femminile e i movimenti femministi siano destinati a fare molto di più, divenendo, in modo sempre più significativo, un ineludibile punto di riferimento per un processo che sappia cambiare radicalmente in meglio questa nostra vecchia società.

pressenza.com, 11/12/23

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