lunedì, marzo 14, 2022

Mafiopoli fu la gemella diversa di Tangentopoli


Gian Carlo Caselli

Qualche tempo dopo Tangentopoli partiva a Palermo Mafiopoli, cioè il riscatto del nostro Paese dopo lo tsunami delle stragi di mafia del 1992. Le due vicende si prestano, per alcuni profili, ad un confronto.

All’inizio Tangentopoli e Mafiopoli erano persino, come dire, gemelle. Ricordo alcuni cartelli di giovani manifestanti sui quali stava appunto scritto: “Borrelli-Caselli-Gemelli”. Perché a Milano come a Palermo la magistratura stava dando corpo e dignità a una frase (La legge è uguale per tutti) da sempre roba ghiotta per comici e cabarettisti.

La giustizia era considerata come un inganno o un’illusione. Il diritto e chi lo amministrava non erano amati, soprattutto da coloro su cui pesavano secoli di misfatti e sfruttamenti. Questi pensieri erano radicati nel senso comune e nella cultura popolare, tanto che il proverbio siciliano «Giustizia stava scritto su u’ portone e ci credette u’ minchione» si ritrova, con poche varianti, in molti dialetti del Paese. Un messaggio ripreso poi da Calvino coi suoi racconti e dalle canzoni di De André.

Tangentopoli e Mafiopoli invece avevano in comune la novità di accendere la speranza che la giustizia riuscisse a rendersi credibile, finalmente occupandosi non più soltanto dei poveri diavoli.

La sovrapponibilità fra Milano e Palermo però non dura molto. Nel senso che il consenso e gli osanna per Tangentopoli continuano per un bel po’, mentre per Mafiopoli subentrano presto indifferenza e ostilità.

La svolta è rappresentata dal processo Andreotti. Un processo “che non s’ha da fare”, perché contrasta il tentativo diffuso di far passare una lettura dei rapporti mafia-politica in chiave di “riduzionismo/negazionismo”: proponendo la cronaca surreale di una modesta e arretrata realtà periferica, di una “mala-politica” locale che non avrebbe mai contaminato quella nazionale. Mentre proprio gli atti del processo Andreotti scandiscono – al contrario – i tempi della storia nazionale.

Per chiunque voglia informarsi appena un po’ i fatti sono noti. Andreotti è stato dichiarato responsabile per aver commesso fino al 1980 il reato di associazione a delinquere con Cosa nostra; reato commesso (e provato) ma prescritto. E tuttavia il macigno della parola “commesso” è stato disinvoltamente sbriciolato parlando di assoluzione, quasi potesse esistere in natura una formula illogica e assurda come “assolto per aver commesso il fatto”. Eppure proprio questo è stato fatto credere al popolo italiano, ingannandolo.

Ma quel che qui mi preme maggiormente sottolineare è che per rendere digeribile lo stravolgimento, fino alla negazione, della verità su Andreotti si è reso necessario bypassare la montagna di risultati positivi che a Palermo, dopo le stragi del ’92, si erano ottenuti sul versante dell’ala militare di Cosa nostra: arrestando latitanti come non mai, né prima né dopo; confiscando beni mafiosi per importi ingentissimi; ottenendo condanne per 650 ergastoli oltre a decine e decine di anni di reclusione. Tutto inghiottito dalla mistificazione organizzata per il  processo Andreotti .

Tant’è che ancora oggi – per lo più – le cronache e le storie di Palermo saltano a piè pari i sette anni del dopo stragi, passando direttamente dalla stagione di Giovanni Falcone alla gestione di Grasso (secondo alcuni un “normalizzatore” della procura), facendo apparire come irrilevante, vuoto di fatti che valga la pena ricordare, il periodo dei cattivi “caselliani” (copyright Marcello dell’Utri). Per non correre il rischio che sia indebolita la favoletta di Andreotti perseguitato da magistrati creativi in vena di rincorrere fantasiosi teoremi.

C’è ancora un punto che avvicina Tangentopoli e Mafiopoli ed è il decreto “salvaladri” voluto da Berlusconi, servitogli dal suo guardasigilli Biondi. Decreto precipitosamente ritirato dopo un pronunciamento dei magistrati del pool di Milano, che ne avevano denunziato a reti televisive unificate (minacciando di dimettersi) l’intollerabile offesa al più elementare senso di giustizia.

Questo impatto mediatico è stato certamente decisivo, ma un qualche contributo al ritiro del decreto è venuto anche da Palermo. A Maroni, allora ministro degli interni, come procuratore capo rappresentai che nel “salvaladri” c’era una norma capace di vanificare un’infinità di inchieste di mafia, consentendo agli interessati di poterne avere notizia prima ancora, in pratica, che le indagini fossero cominciate.

Maroni (lo ha confermato in più occasioni, anche in pubblica udienza) lo segnalò al governo, dando l’avvio ad una specie di slavina che porterà poi  alla crisi dei rapporti fra Lega e Berlusconi.

Fonte: Il Fatto Quotidiano


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