venerdì, novembre 26, 2021

Non è soltanto il virus a minacciare la nostra scuola


by 
Giuseppe Savagnone

Basta con le guerre puniche e con gli scritti della maturità?

È di questi giorni la presa di posizione del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani il quale, intervenendo al Tg2 Post si è chiesto se abbia ancora senso «fare tre o quattro volte le guerre puniche nel corso di dodici anni di scuola», quando invece oggi urge «impartire un tipo di formazione un po’ più avanzata, più moderna, a cominciare dalle lingue, dal digitale. Bisogna cambiare l’assetto». Non è la prima volta che Cingolani mostra una certa avversione per le guerre puniche. Già in passato le aveva assunte come esempio eclatante dell’arretratezza dei nostri programmi scolastici. «Cosa hanno studiato a scuola i miei figli?», si era chiesto in quell’occasione. «Le guerre puniche, come me che ho 56 anni ma che appartengo alla generazione carta e penna». 

Si colloca sulla stessa linea la forte spinta che in questi giorni viene esercitata sul ministro della Pubblica istruzione Bianchi per mantenere anche quest’anno la formula adottata l’anno scorso per gli esami di Stato: un’unica prova orale, a partire da un elaborato su un tema in precedenza assegnato dal Consiglio di classe allo studente e riguardante una disciplina caratterizzante l’indirizzo di studi.

Nei giorni scorsi è stata avanzata su Change.org una petizione di studenti, che ha già superato le 40.000 firme, in cui si dice: «Noi studenti maturandi chiediamo l’eliminazione delle prove scritte all’esame di maturità 2022, poiché troviamo ingiusto e infruttuoso andare a sostenere un esame scritto in quanto pleonastico, i professori curricolari nei cinque anni trascorsi, hanno avuto modo di toccare con mano e saggiare le nostre capacità. L’ulteriore stress di un esame scritto remerebbe contro un fruttuoso orale indispensabile come primo passo verso l’età adulta».

Come si vede, non si invoca lo stato di eccezionalità legato agli impedimenti che la didattica ordinaria ha avuto in questi ultimi due anni di totale o parziale lockdown, ma l’inutilità intrinseca di un esame scritto come prova di maturità. Da parte sua il ministro non si è ancora pronunziato, ma ha lasciato capire che personalmente non vede alcun problema dal punto di vista culturale: «Il giudizio di quanto fatto lo scorso anno», ha dichiarato, «è buono. I ragazzi non hanno fatto tesine raffazzonate ma hanno colto questo momento di riflessione anche sulla loro condizione degli ultimi due anni».

Bisogna dire che a insorgere contro questa ipotesi sono stati invece, i sindacati della scuola, i quali hanno unanimemente rivendicato l’importanza insostituibile almeno dello scritto di italiano.


Ripetitività degli studi e crescita umana degli studenti

Sulla base di queste ultime notizie dal fronte scolastico, non sembra azzardato osservare che il virus non è la sola minaccia che incombe sulla scuola italiana. Per quanto gravi siano stati i danni prodotti dalla pandemia e dalla conseguente necessità di ricorrere alla didattica a distanza (DaD), essi sono ancora solo dei disturbi passeggeri rispetto al pericolo di una radicale svalutazione culturale ed educativa che ormai da tempo minaccia la nostra istituzione scolastica e che sembra acuirsi ultimamente sotto la pressione dell’emergenza.

In realtà la polemica contro un sistema di studi che trascuri il presente per privilegiare unilateralmente il passato (le guerre puniche) sarebbe del tutto legittima. Ma supponiamo che il ministro Cingolani sappia quanto lontano sia oggi il curriculum di qualunque corso di studi da questo modello obsoleto. Le lingue e l’informatica sono da tempo entrate a pieno titolo nella nostra scuola e contrapporle allo studio della storia antica può avere solo il significato di una denunzia dell’inutilità di quest’ultima.

Vero è che gli stessi eventi storici vengono studiati più di una volta, via via che lo studente progredisce in età e passa da un livello all’altro di istruzione. Ma questo è ovviamente dovuto al diverso grado di maturità con cui egli si accosta allo studio del passato. Ritenere superfluo riprendere un argomento al superiore, dopo averlo studiato alla scuola primaria, sarebbe come pensare che sia inutile visitare da adulto una città dopo esserci stato da bambino con i genitori.

Peraltro il problema non si pone solo per la storia. Tutto il corso di studi è segnato da una apparente ripetitività che consente, in effetti, il progressivo adeguarsi dei ragazzi alla ricchezza di significato delle discipline che studiano. Qui la questione di fondo è se valga la pena dedicare tanto tempo a queste discipline.


Ciò che è utile e ciò che è importante

Perché nessuno può negare che, come ha detto il ministro Cingolani, oggi sia più utile studiare le lingue e l’informatica che non la storia, la lingua e la letteratura greca, la filosofia e che, se vogliamo adeguarci agli standard europei e del mondo occidentale, la scuola debba sempre più dare spazio alle prime rispetto alle seconde.

La questione è se davvero ciò che è più utile sia anche più importante. Oggi siamo portati a far coincidere i due concetti: qualcosa è importante se è utile. Il denaro, per esempio. Ma siamo sicuri che sia davvero così? Basta, per dubitarne, prendere semplicemente atto che qualcosa è utile se “serve” a qualcos’altro. Ma proprio ciò implica che non valga di per sé, bensì per quello a cui è funzionale.

Utili sono i mezzi. Una cosa importante, invece, deve esserlo di per sé, come lo è un fine. Siamo in una società dove domina quella che Max Horkheimer, uno dei fondatori della Scuola di Francoforte, definiva «ragione strumentale», vale a dire una razionalità tutta volta a conseguire dei risultati pratici, a scapito della valutazione della verità e del valore intrinseco della realtà. Oggi spesso le nostre vite si modellano su questo tipo di “ragione”, che ci permette di calcolare come fare ad ottenere un risultato o a raggiungere uno scopo, ma non di valutare se quel risultato o quello scopo valgano davvero la pena di essere perseguiti.

La ragione strumentale è cieca di fronte ai fini, perché è specializzata negli strumenti ed è essa stessa solo una strumento. Vediamo tutti gli effetti di questa deriva. Essa è particolarmente evidente nel predominio della tecnica, che si occupa appunto di elaborare i metodi e le procedure per raggiungere degli scopi, sulla capacità degli esseri umani di individuare e valutare, dal punto di vista del bene e del male, questi scopi. Che la scoperta dell’energia atomica sia utile è fuori questione. Ma può esserlo per distruggere una città – come è accaduto a Hiroshima e Nagasaki – , oppure per illuminarla.

Allo stesso modo l’abilità nell’utilizzazione dell’informatica è preziosa, ma può servire indifferentemente a scopi di pace o di guerra, a migliorare la vita di tutti o alla egoistica affermazione personale. La tecnica, essendo per sua natura fondata sulla razionalità strumentale, non può dire nulla, per definizione, su quale sia l’uso migliore da fare dei suoi prodotti.

Qualcosa di analogo vale per le lingue moderne, soprattutto per l’inglese, che sono una preziosa risorsa per la comunicazione, ma possono servire a comunicare qualunque cosa, sia messaggi d’amore che minacce di morte.

Naturalmente le si può studiare, come quelle antiche, nella loro valenza logica e nelle loro espressioni letterarie, ma non è certo in questo senso che ne parlava il ministro Cingolani e che oggi molti ne caldeggiano un ruolo sempre maggiore nella scuola. Dietro la loro posizione c’è la constatazione che l’economia ha bisogno di “capitale umano” qualificato nello svolgere certi ruoli e che l’Italia è ancora indietro, rispetto ad altri Paesi, nella formazione di questo “capitale”. Di passaggio sarebbe il caso di ricordare che con quest’ultimo termine si sono sempre indicati degli strumenti per produrre – denaro, macchinari, materie prime – , cose “utili”. È così sicuro che una persona possa essere ridotta a “capitale”? Ancora una volta siamo davanti al problema di ciò che è utile e ciò che è importante. 


Un essere umano vale solo perché “serve” a qualcosa? 

Qualcuno obietterà che è solo un modo per intendersi. Ma il linguaggio ci plasma e a forza di dire che la scuola deve produrre “capitale umano”, invece di parlare della sua funzione educativa, stiamo finendo per credere che studiare certe discipline “inutili” (ma importantissime) sia tempo perso.


Per una scuola che aiuti i ragazzi a “nascere”

Non si tratta solo di nozioni. Le guerre puniche, come qualunque altra vicenda storica, sono da studiare come punto di partenza di una riflessione critica che colga il senso degli eventi del passato per educare alla lettura di quelli del presente. Nella scuola l’insegnare (letteralmente: l’imprimere in qualcuno una conoscenza, un’abilità) è fondamentale, ma deve sempre essere finalizzato all’educare (dal latino e-ducere: condurre fuori, metafora dell’opera dell’ostetrico durante il parto).

La scuola dovrebbe educare a pensare e, attraverso questa riflessione, ad instaurare un corretto rapporto con se stessi., paragonabile alla nascita. E su questo terreno il nostro sistema scolastico ha perduto negli anni molta della sua incisività.

Lo sbandamento umano a cui i nostri ragazzi sono in larga misura soggetti – non certo solo per colpa della scuola, ma senza che essa riesca ad arginarlo – si manifesta in molti modi, ma è spietatamente evidenziato dalla percentuale di neet («Neither in Employment or in Education or Training»), i giovani che non studiano e neppure lavorano, che nel nostro Paese, nella fascia tra i 18 e i 24 anni, nel 2020 è stata del 24,8%!

Qualcuno si chiederà che cosa c’entri in tutto questo l’eventuale abolizione dello scritto di italiano. La scrittura ha una funzione fondamentale nella formazione di una capacità di oggettivare i problemi, in una certa misura, anche il proprio mondo interiore. In un clima culturale che esalta l’emotività fino ai limiti dell’irrazionalità, è importante che si impari a fissare in un discorso organico sentimenti e pensieri per imparare a guardarli, per così dire, dal di fuori.

Altrimenti capita che la sola esperienza di scrittura sia quella che si realizza sui social, dove essa diventa espressiva di stati d’animo incontrollati e nebulosi. L’esame non è solo lo sbocco degli studi, ne è anche il punto di riferimento durante tutto il loro svolgimento. Un esame che include la prova scritta esige che negli anni di formazione gli studenti si esercitino a scrivere, per raccontare se stessi, le cose che studiano, il mondo.

Sopravviverà la nostra scuola al virus della sua “modernizzazione”? Dipende da tutti noi. Sarebbe ora che l’opinione pubblica si interessasse della sua sorte un po’ di più di quanto abbia fatto in questi ultimi anni. E che, invece di andare a dare pugni sul naso ai docenti, i genitori stringessero con loro un patto per aiutare i propri figli a nascere.

Giuseppe Savagnone 

Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu.

Scrittore ed Editorialista.


tuttavia.eu, 26/11/2021

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