domenica, dicembre 26, 2021

Trieste, gli ultimi passi dei migranti: «I loro piedi, le fatiche dell’anima»


NELLO SCAVO Inviato a Trieste

A vederli passare in lontananza, nel primo buio dell’ultima corsa ai regali, sembra siano di ritorno dal mercato. Il carrellino verde che con il marito si trascina ogni sera contiene dei doni per chi in regalo ha avuto una vita da dimenticare. Dentro ci sono chilometri di garze, litri di disinfettante, una montagna di cerotti, creme per il pediluvio e pomate che devono fare miracoli per riparare i piedi malmessi dei respinti.

Lorena, con consumata eleganza, li estrae come non avesse fatto altro nella vita. China il capo sulle caviglie esauste dei sopravvissuti. Feriti, gelati, scorticati, le dita rotte o i talloni in pezzi. Da come li vede zoppicare mentre si avvicinano, sa già che anche stasera sarà come mettere i cerotti sul cuore, non solo alle estremità. Perché quei piedi raccontano le fatiche dell’anima. Piedi che hanno percorso più di cinquemila chilometri da Kabul e che l’ultimo pezzo di sentiero, i 300 chilometri tra la Bosnia e Trieste, li hanno dovuti rifare più volte. Se non ti catturano in Bosnia, all’andata puoi risparmiarti le botte di certa sbirraglia balcanica, ma se ti prendono in Slovenia ti ributtano indietro. E i croati te le daranno al ritorno con gli interessi.

Quando arrivano da Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi i forestieri non hanno molta voglia di parlare. Basta sapere che dal carrellino verde non usciranno manganelli. E gli aiuti, quando pensi che le scorte stiano per finire, non mancano mai. L’ultima spedizione è arrivata dalla Brianza, con una lettera d’accompagnamento scritta di pugno: «C’è un pezzo della mia via, la via Fiume di Lissone. I vicini, soprattutto Stefano, hanno portato qualcosa per i ragazzi migranti ed io ho pensato alla spedizione». Lorena risponde con la solita disarmante tenerezza. La stessa con cui ha fatto entrare in casa i poliziotti che erano andati a sequestrare, per ordine della procura, computer, telefoni e documenti. «Cari amici di Lissone grazie da tutta Linea d’Ombra per la vostra solidarietà che rende migliore questo nostro mondo».

Nonostante le accuse per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di partecipazione a un network di trafficanti internazionali, con Gian Andrea ha continuato come sempre. Perché le inchieste possono far male al morale, ma non guariscono i piedi dei superstiti che aspet- tano una fascia e una parola di benvenuto.

Alle volte ti domandi da dove venga quella forza. Non si offendono se gli ricordi che non sono più dei ragazzini. Gian Andrea ha passato gli 80 e Lorena vede avvicinarsi i 70. Dev’essere questione di tempra. È figlia di eroi, Lorena. Ma lei, che è psicologa clinica e per via dell’inchiesta ha dovuto rinunciare anche all’impegno da giudice onorario, ha saputo molto in là nel tempo quali erano davvero le sue radici. «Chi era mia madre l’ho dunque scoperto dopo averla perduta, quando la sua morte mi ha restituito ciò che di lei mi giungeva lontano e in parte ignoto. Conoscevo la sua forza, il suo coraggio, il suo amore per la vita, la sua cura, l’attrazione per il mistero che circonda un’alba, un tramonto, una goccia di rugiada». Maria Antonietta Moro era stata dapprima nelle file della resistenza jugoslava con il nome di battaglia “Nataša” e poi come “Anna” nelle formazioni garibaldine a Pordenone dove conobbe “Ario” Fornasir, commissario politico e poi comandante partigiano. Presentando i diari della mamma, scoperti solo nel 2009 e pubblicati da Iacobelli Editore nel 2014, Lorena spiegò che l’impegno di entrambi i genitori muoveva «da un’unica origine che è stata la loro diversa capacità di mettere al mondo un pensiero di civiltà». A modo loro, imprevedibile e neanche mai immaginato, Lorena e Gian Andrea ripercorrono quell’epopea facendosi «partigiani della carità». Non è da tutti slacciare le scarpe rotte e i calzini maleodoranti di uomini sconosciuti che domani magari non rivedrai più.

Gian Andrea Franchi, per quanto sia stato per tutta la vita un tranquillo professore di filosofia, non ha mai detto cose tranquille. Neanche adesso, dopo l’archiviazione delle accuse avvenuta un mese fa, che potrebbe cantare vittoria e recitare la parte comoda del nonno barricadero che attira le simpatie dei più giovani. Non rinuncia a ragionare di ideali con senso di realtà. «Siamo in un contesto – ripete agli intervistatori – in cui la questione dei migranti è stata da una parte demonizzata e utilizzata come strumento di lotta politica e per nascondere i veri problemi di una società in grave crisi come quella italiana, dall’altra c’è un grosso problema di gestione pratica di questo fenomeno».

Cominciare a vedere le cose dai piedi è un buon esercizio. La prospettiva dello sguardo e i rapporti di forza si invertono. I piedi dei disgraziati non raccontano solo le scarpinate sui boschi, i passi che tremano mentre si attraversano i campi minati rimasti senza bonifica, le corse a perdifiato con i cani della polizia croata alle calcagna. Raccontano soprattutto i respingimenti, i chilometri percorsi avanti e indietro per decine di volte, fino ad aggrapparsi agli speroni sul Carso che preannunciano l’Italia. Pochi giorni fa il Danish refugee council ha aggiornato le statistiche. Da luglio a novembre il più alto tasso di respingimenti è stato ancora registrato al confine tra Croazia e Bosnia, con un totale di 4.905 persone coinvolte, seguito da 592 persone respinte al confine tra Romania e Serbia e 522 dall’Ungheria alla Serbia. Di tutti i casi di respingimento il 18% ha riguardato famiglie con bambini, inclusi minorenni non accompagnati o separati dalla famiglia o da altri adulti di riferimento. Porte sbarrate anche a donne in viaggio da sole e anziani. Il 32% di tutti i pushback registrati sono stati segnalati da cittadini afghani. Qualcosa però è cambiato. In parte per merito dei tribunali e in parte per colpa dei talebani. Dal gennaio del 2021 i respingimenti informali delle autorità italiane verso la Slovenia si sono pressoché azzerati. Era accaduto che il tribunale di Roma aveva condannato l’Italia per aver partecipato ai respingimenti a catena verso la Bosnia. Poi in agosto i talebani si sono ripresi l’Afghanistan. E da allora è arrivato da Roma il preciso ordine di non rimandare indietro nessuno. 

Ognuno dei profughi nella Piazza della Libertà, ribattezzata “Piazza del Mondo”, è testimone delle macerie d’Europa. Quel Continente che la principessa Sissi osserva dalla sua statua cui s’appoggiano i giovani di 'Linea d’Ombra', i compagni di strada di Lorena e Gian Andrea. Diceva Michelangelo Buonarroti che il piede umano «è un’opera d’arte e un capolavoro di ingegneria». A Trieste Lorena e Gian Andrea insegnano in silenzio che l’Europa di oggi guardando i piedi dei maltrattati potrebbe riconoscere il volto della propria decadenza. «Prendersi cura di loro – dicono – vuol dire prendersi cura anche di noi e della nostra storia».


Avvenire | Venerdì, 24 Dicembre 2021

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