venerdì, dicembre 17, 2021

“House of Gucci”, lo sceneggiatore Bentivegna: "Così ho spezzato la maledizione del film"

Roberto Bentivegna, origini corleonesi, sceneggiatore del film





di ARIANNA FINOS

Milanese (di origine siciliana, Corleone) trapiantato a Hollywood, 39 anni, firma la sceneggiatura del film di Ridley Scott, in sala dal 16 dicembre. "Ho avuto in mente Lady Gaga come Patrizia Reggiani fin dall'inizio"

C’è un italiano dietro House of Gucci. Roberto Bentivegna, 39 anni, nato a Milano (ma di origini siciliani, suo padre è corleonese) a Los Angeles da un decennio, è lo sceneggiatore che ha scritto il film, diretto da Ridley Scott, sulla vicenda della famiglia del marchio italiano più famoso del mondo. Due ore e quaranta di passioni, intrighi, affari, tradimenti, crimine, che guarda all’operetta, al Padrino e ai Borgia. Una produzione hollywoodiana tratta dal romanzo omonimo di Sara Gay Forden, Lady Gaga nel ruolo di Patrizia Reggiani, nel cast Al Pacino, Adam Driver, Jeremy Irons e Jared Leto. L’appuntamento con Bentivegna è subito dopo l’incontro con Lady Gaga a Palazzo Parigi, in un caffè siciliano di fianco all’albergo. Il film, in Italia con Eagles, uscirà in 500 copie il 16 dicembre, preceduto da anteprime serali il 15.

Com’è è finito in House of Gucci?

“Avevo scritto una sceneggiatura, The eel, L’anguilla, otto anni fa. Un caro amico è diventato presidente della casa di produzione di Scott, l’ha data a Ridley come esempio della mia scrittura, a lui è piaciuta moltissimo e con la moglie Giannina Facio mi hanno offerto il lavoro di Gucci. Un progetto “maledetto”, avevano provato per quindici anni con molti sceneggiatori di altissimo livello a trovare il copione che funzionasse”.


di Arianna Finos


Cosa le hanno chiesto?

“Non mi hanno dato indicazioni, non sapevano che tipo di film dovesse essere. Avevano provato un approccio serio, o da crime thriller, ma non era venuto fuori nulla di particolarmente accattivante. E quindi per me è stata l’opportunità per rivisitare le origini milanesi, sono cresciuto qui. Mi ricordo quando fu ucciso Maurizio, io giocavo vicino al parco in via Palestro, mia mamma è stilista di moda, conosco bene quel mondo. I personaggi sono così grotteschi e sopra le righe e la storia così pulp che andava raccontato con ironia. Loro, i personaggi, si possono anche prendere sul serio mentre noi come pubblico dobbiamo avere un senso di ironia”.

Lady Gaga a Milano per "House of Gucci" saluta i fan fuori dall'albergo: "Grazie a tutti i sanitari che hanno lavorato per il film in piena pandemia". 

Lungo abito maculato, tacchi beige e borsa bianca: così Lady Gaga si è presentata a Milano per l'incontro con la stampa italiana in occasione della premiere del film di Ridley Scott "House of Gucci", in cui interpreta Patrizia Reggiani. L'attrice ha detto: "Voglio ringraziare tutti i medici e gli operatori sanitari che hanno lavorato durante la produzione del film al tempo del Covid, nessuno si è ammalato. Sono molto grata al personale sanitario. Vorrei che tutti vincessero un premio, ogni attore, ogni realizzatore vorrei che tutti vincessero un premio per aver realizzato opere d'arte durante la pandemia. Il vero premio dovrebbe andare alle persone in tutto il mondo così coraggiose negli  ultimi 18 mesi che hanno affrontato questa pandemia globale, questo - ha concluso- è il  vero coraggio". Uscendo da Palazzo Parigi, l'hotel dove ha incontrato i media, ha salutato la piccola folla di fan radunati per lei.

Il film è recitato in inglese con l’accento e alcune parole italiane… 

“La decisione è di Ridley. Ma la cosa che ai miei occhi lo rende interessante sono i dettagli. Quando Patrizia mangia il panzerotto di Luini, che io adoro. O la scherma di Paolo, che io facevo al centro di Milano. Ci sono dettagli specifici dell’Italia ma poi il film andava aperto a un pubblico internazionale e comunque la scelta di una lingua con accento italiano funziona, lo rende quasi un’operetta”.

C’è un juke box di canzoni, erano in sceneggiatura?

“Ho messo molte canzoni nella sceneggiatura, era un modo per scandire il tempo. Avevo scelto anche un Franco Battiato anni Ottanta, una canzone anni Settanta di Mina. Ma Ridley, da inglese, ha aggiunto altre hit. Avevo scelto ‘Il cielo in una stanza’ per la festa del loro primo incontro, la scena era molto più gattopardiana, elegante, Ridley l’ha voluta molto più alla Sorrentino”.

Si è basato sul libro di Sara Gay Forden, in cui le situazioni son ancora più surreali ed eccentriche.

“Mi sono ispirato al libro, e ai documenti, poi mi sono allontanato per raccontare la storia che volevo io. Ad esempio, la mediocrità di Paolo è una cosa vera, voleva disperatamente firmare una sua linea di moda, lui che era presidente dell'associazione amanti dei piccioni. Dettagli trovati negli articoli degli anni Settanta. C’è qualcosa di umano nei personaggi, ho provato a evidenziare questo aspetto, anche nel personaggio di Patrizia, che nella vita reale di empatico ha davvero poco: nel film doveva avere un arco, iniziare e finire in diversi luoghi emotivi”.

Lady Gaga l’aveva già in mente come Patrizia Reggiani in fase di scrittura?

“Assolutamente sì, anche se l’ho incontrata per la prima volta sul set italiano a Gressoney. Ma lei è stata Patrizia per tre mesi, in ogni momento; quindi, in realtà non ho mai avuto un'interazione con Lady Gaga ma con il personaggio. Parlava con l’accento di Patrizia, aveva l’arroganza di Patrizia. La sceneggiatura l’ho scritta quando non immaginavo nemmeno che il film potesse essere realizzato. Né conoscevo Ridley Scott, il lavoro mi è stato offerto dalla produzione. Scrivevo e pensavo: magari gli piace e mi dà un altro lavoro. Nel cinema si scrivono tante cose che poi non si realizzano. Questo è il mio primo film. Di Lady Gaga avevo visto ‘È nata una stella’, conoscevo la sua storia, siamo coetanei, credo di averla vista al Greenwich Village - ho studiato alla Columbia University - quando non era ancora famosa e suonava nei locali, si chiamava ancora Stefani Germanotta”.

Momenti difficili sul set?

“Da un punto di vista emotivo è stato pesante per lei, il personaggio è molto drammatico, sopra le righe. Noi come pubblico vediamo l’ironia, ma l’attore entra totalmente nel ruolo. Lei l’ha presa seriamente e credo che nel montaggio finale la sua interpretazione sia molto più pacata, controllata, di quel che ho visto io sul set, scene in cui a volte andava sulla luna. Scott fa pochi ciak, con tante cineprese ma invisibili, gli attori si sentono liberi come a teatro. Ricordo la prima scena che abbiamo girato a Gressoney, nel film è St. Moritz, quando lei arriva con la sua Bentley e lui sta pranzando con i suoi amici e Paola Franchi. Gaga arriva, si sente la tensione tra le due, nello stesso pomeriggio abbiamo girato la scena in cui lei se ne deve andare e dice a Maurizio, “Io non so più chi sei”, quindi lei è partita a mille fin dall’inizio”.

Ha fatto modifiche?

“Devo dire che la frase iconica 'Father, son and House of Gucci' è stata una sua invenzione. Per me un complimento. Come nel jazz: quando un attore è pienamente a suo agio nel ruolo può fare ottime improvvisazioni. Anche Jared Leto ha fatto un paio di aggiunte belle. Soprattutto è stato magnifico nella battuta che ho scritto sul set, 'io posso finalmente librarmi, elevarmi come un piccione', con i suoi occhi belli e espressivi da cui traspare il dolore”.

Un momento tragicomico, un film che ha pensato anche un po’ come una commedia all’italiana?

“Sì, certo, o anche ai Pagliacci. Chi prende il film sul serio sbaglia. Abbiamo fatto un film alla Scarface. I tre film che mi venivano in mente mentre stavo scrivendo erano Scarface, Viale del tramonto raccontato dal punto di vista della diva Norma Desmond, e poi Il padrino”.

Anche Variety definisce il film "163 minuti di saga criminale, una sorta di Padrino light".

“Il paragone col Padrino c’è per la struttura, i racconti di una saga famigliare con tradimenti e intrighi. Forse per i luoghi comuni degli italiani. Ci ho giocato un po’: il senso della famiglia, il tradimento, molto Borgia. La famiglia Gucci è di Firenze, ho pensato alla grande tradizione delle famiglie toscane che si ammazzano tra di loro. Ma per il tono mi ispiravo più a ‘Quei bravi ragazzi’”.

Aveva paura del giudizio dei critici?

“Assolutamente no, mi emoziona. Da cinefilo ricordo grandi film che sono stati divisivi. Suscitare reazioni forti è sempre un bene. Personalmente sto avendo commenti positivi. Se se ne capisce la leggerezza”.

In una scena del negozio di New York Al Pacino- Aldo Gucci guarda il sedere di Patrizia-Lady Gaga. Una scena forse esagerata, anche se nel libro di Sara Gay Forden lo si descrive come un dongiovanni.

“Nella realtà era un marpione. Nella prima versione della sceneggiatura era molto più ossessionato dal sesso. Nella scena in cui lo chiama il figlio Paolo e lui è al bar, nella prima versione lui stava facendo sesso con la cameriera e diceva “I am coming… sto venendo”. Io avrei spinto di più, quando l’ho scritto non avevo nulla da perdere e a Scott è piaciuto proprio l’ironia, che gli appartiene profondamente anche se poche volte l’ha portata al cinema”.

Com’è stato l’incontro con Pacino?

“Mi ha voluto conoscere sul set, quando gli ho detto che mio papà era di Corleone ci siamo abbracciati, 'mia nonna era di Corleone', mi ha detto. Abbiamo parlato per due ore, mi ha invitato a casa sua per un caffè, è stato come andare dal Papa. Ha amato la sceneggiatura, ha improvvisato la frase 'Gucci è quello che dico io', quando Lady Gaga gli porta le cianfrusaglie da mercato che secondo lei non rispettano la qualità di Gucci, che in segreto producevano loro. Magari era un’esagerazione, ma io lo vedo un po’ come il mago di Oz”.

Ha avuto rapporti con la famiglia Gucci?

“No, non credo abbiano visto il film. Comunque la nostra è un’opera di finzione, abbiamo avuto la fortuna di realizzarla con leggende del calibro di Ridley Scott e Al Pacino”. 

E ora che farà?

“Mi godo il momento, ho scritto un altro film comprato da Amazon ambientato a Creta, gireremo in estate. Killer heat, lo dirigerà qualcun altro, un noir su due gemelli, basato su un racconto di Jo Nesbo, molto Chinatown, Il lungo addio, atmosfere alla Chandler. Mi hanno chiamato dopo aver letto la sceneggiatura di Gucci”.

Il suo 'L’anguilla' è nella black list delle migliori sceneggiature non ancora realizzate. Ci sono pochi sceneggiatori italiani a Hollywood.

"È vero. L’anguilla è il film che vorrei dirigere. È un western noir ambientato alla frontiera tra Messico e Stati Uniti. Ed è una specie di omaggio a Peckinpah, a Sergio Leone per le facce, non per la storia, che è moderna. Mi piacerebbe trovare facce meravigliose come quelle che usava lui”.

Lei è arrivato a Los Angeles dieci anni fa. Come si è mantenuto?

“Scrivendo sceneggiature, per Lynne Ramsay ad esempio. Ci ho campato bene, ma poi nessuna era diventata film e ogni volta mi cadevano le braccia, ero frustrato di questo limbo. Tu puoi scrivere, pagato, lavori apprezzati, ma come il cavallo che all’ultimo minuto non salta, il progetto sfumava”.

La passione per il cinema?

"È nata quando da bambino, a Milano. Ero ossessionato. Andavo tutti i fine settimana con mio papà al cinema in via Torino. Papà è avvocato e cinefilo. Come mia nonna. Con lei a 12 anni ho visto a Nizza Pulp fiction, in inglese con i sottotitoli. Ha 97 anni, non ha ancora visto il film. Io sono cresciuto tra Milano e Londra, mamma è italoinglese, ho vissuto negli Stati Uniti e in Colombia, sono un cittadino del mondo. Mi mimetizzo ovunque”.

La Repubblica, 13 novembre 2021

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