venerdì, febbraio 10, 2012

Tangentopoli, Falcone e Borsellino: 1992, l'anno che cambiò l'Italia

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
di ENRICO DEAGLIO
Tutto accade vent'anni fa, quando una serie di eventi cambiarano il volto del nostro Paese. Prima la sentenza del maxiprocesso contro la Mafia. Poi l'uccisione di Salvo Lima e la stagione delle grandi stragi di Cosa Nostra. Negli stessi giorni, a Milano, Mario Chiesa intascava tangenti, Di Pietro lo covinse a confessare e il 'mariuolò fu arrestato. Poi ci fu il boom della Lega e, due anni dopo, Berlusconi scese in campo. Così finì un epoca e si affermò l'idea che fosse una rivoluzione
Il 1992 - giusto vent'anni fa - fu l'anno che cambiò l'Italia. Davvero. Ma non fu una rivoluzione, gli italiani non fanno rivoluzioni. Tutti coloro che all'epoca avevano l'età della ragione ricordano quell'anno, se lo vedono balzare di fronte alla memoria.
Le serate passate alla tv per sapere in diretta chi era stato arrestato a Milano: un mondo politico che sembrava immortale che crollava sotto i nostri occhi. E poi le bombe: tutti ci ricordiamo dove eravamo quando qualcuno ci disse che era stato ucciso Falcone. E Borsellino? Eravamo già in vacanza, mi sembra... Comunque, faceva molto caldo.

Subito dopo vennero le immagini dell'esercito italiano in Sicilia: ufficiali con le mimetiche e i Ray-Ban a specchio, a mezzo busto fuori dalle torrette dei blindati, in mezzo a sacchi di sabbia, palazzi di tufo, bambini curiosi: andavamo a mettere mano su una colonia irrequieta. Alla fine dell'anno il governo operò un improvviso e non indifferente prelievo dalle tasche di tutti, per evitare all'Italia di fare la fine dell'Argentina (vent'anni fa la Grecia si chiamava così).

Eppure quando cominciò, il 1992 sembrava tranquillo, ancorché "bisestile". Il solito rissoso governo pentapartito guidato dal solito Giulio Andreotti; un ex Pci sempre più diviso in due dopo la caduta del Muro, grande successo per la canzone di Battiato, Povera patria, schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame... La normalità di un Paese ricco, insomma. E invece, la cronaca prese il sopravvento. A dare inizio alla valanga fu la pubblicazione, il 30 gennaio, della Sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione nel maxiprocesso contro Cosa Nostra. Era la più grande mazzata che la mafia avesse mai avuto nella sua storia: 360 condanne, 19 ergastoli da scontare in carceri di massima sicurezza, sequestro delle ricchezze accumulate con il delitto. Poteva essere la fine della nostra vergogna nazionale, ed invece la storia ricominciò proprio da lì. Guidata da Salvatore Riina e da Bernardo Provenzano - due contadini semianalfabeti del paese di Corleone, latitanti da decenni - Cosa Nostra passò all'attacco.

Il primo a cadere (a Palermo, il 12 marzo) fu l'eurodeputato Salvo Lima, braccio destro di Giulio Andreotti in Sicilia, il suo granaio elettorale. Freddato sul lungomare di Mondello da due killer in motocicletta: inaudito. E successe un fatto strano: nonostante fosse un uomo potente, solo il suo capo, Andreotti, scese a Palermo per i funerali: tutto il restante mondo politico disertò, annusando l'aria che tirava. Giovanni Falcone, il magistrato che aveva sconfitto Cosa Nostra nel maxiprocesso, capì immediatamente quello che stava succedendo: Cosa Nostra aveva avuto assicurazioni politiche su una sentenza favorevole; non l'aveva ottenuta e si stava vendicando. Non solo, andava alla ricerca di un altro referente politico. Si preparavano tempi di guerra.

Negli stessi giorni, qualcosa di grosso stava maturando nella capitale morale, Milano. Una signora divorziata, tale Laura Sala, si era rivolta al giudice perché l'ex marito, l'ingegner Mario Chiesa, personaggio in ascesa della nomenclatura socialista meneghina, presidente del benemerito Pio Albergo Trivulzio (vanto dell'assistenza sociale), le passava poco di alimenti. E dire che era ricchissimo. Guarda, guarda, pensarono i carabinieri. Che furono molto zelanti e arrestarono Mario Chiesa, il 17 febbraio, mentre intascava una tangente di sette milioni e altrettanti li stava eliminando nel water. La pratica era seguita da un pubblico ministero sconosciuto, un ex poliziotto molisano, tale Antonio Di Pietro, 42 anni, sanguigno e dal linguaggio colorito, di simpatie democristiane, e che indossava improponibili cravatte di pelle. Di Pietro convinse Mario Chiesa a confessare.

E così si scoperchia la più grossa storia di corruzione della Repubblica italiana, passata alla storia come "Tangentopoli " (una specie di Paperopoli di Walt Disney); o "Mani pulite". Ogni giorno qualche pezzo grosso finisce nel carcere di San Vittore; ogni giorno qualcuno denuncia qualcun altro; gli industriali raccontano che non possono lavorare se non danno il 5-10 per cento ai partiti. Il procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, affianca altri due magistrati a Di Pietro; Gherardo Colombo (che dieci anni prima aveva scoperto l'esistenza della P2) e Piercamillo Davigo, un forte conoscitore del codice. Il neonato Tg4, diretto dal giornalista ex Rai Emilio Fede, ha l'idea di piazzare un telegiornale in diretta dal Palazzo di giustizia, per dar conto di arresti e confessioni. E le notizie non mancano: crollano dirigenti politici cittadini, regionali, nazionali di quasi tutti i partiti; affondano la Dc e il Psi, vengono ridotte a zero antiche e storiche formazioni come il Pli e il Pri, e più recenti come il Psdi; rimane un po' contuso, ma sostanzialmente salvo il Pds, erede del Pci; estraneo solo il Msi, perché piccolo ed escluso dalla torta degli appalti. Gli italiani fanno un corso accelerato di procedura penale: imparano che cos'è un avviso di garanzia, le differenze tra pm e gip, quella strana cosa che si chiama concussione. La satira di ispirazione comunista raggiunge il suo apice quando può pugnalare i compagni alleati. Settimanale Cuore, titolo a tutta pagina: "È scattata l'ora legale, panico tra i socialisti".

Il 7 aprile si va alle urne: la Dc perde due milioni di voti, il Psi se la cavicchia, il Pds di Achille Occhetto è ridotto al sedici per cento dei consensi. Il bottino è della Lega lombarda di Umberto Bossi, che conquista tre milioni di voti (nel giro di cinque anni questo partitino ha moltiplicato per trenta il suo elettorato in Lombardia e Veneto). L'ideologo della Lega è un vecchio professore universitario, Gianfranco Miglio, che ama vestirsi come un borghese sudtirolese nei giorni di festa, tutto loden e cappellini. La sua proposta è netta: l'Italia va divisa in tre regioni, Padania, Etruria e Mediterranea, e aggiunge che quest'ultima andrebbe governata direttamente dalla mafia, dato che esprime la migliore classe dirigente.

Il 25 aprile, con un interminabile messaggio televisivo (45 minuti), si dimette, con sei mesi di anticipo, Francesco Cossiga, ottavo presidente della Repubblica. Negli ultimi anni del suo mandato si era reso famoso per le sue esternazioni; proclami populistici, attacchi, spesso oscuri, a magistrati, minacce di rivelazioni di segreti di Stato si accompagnavano alla difesa di massoni e carabinieri, dei quali ultimi il presidente invocava una maggiore presenza nella vita pubblica. Di lui si diceva che era pazzo; il bello era che lui confermava.

E così arriviamo alla primavera del 1992. Le elezioni per il nuovo presidente (in genere più lunghe di un conclave vaticano) sono fissate per il 13 maggio. Il favorito dai bookmaker è la vecchia volpe Giulio Andreotti, anche se segnata dal delitto siciliano. Il 23 maggio è un giorno come gli altri. I milioni di appassionati di ciclismo aspettano l'inizio del Giro d'Italia scommettendo su Chiappucci contro il favorito Indurain; gli appassionati di politica seguono le elezioni presidenziali che si trascinano da dieci giorni (Forlani, l'ex pallido segretario della Dc era sembrato farcela, ma Andreotti è pronto al balzo finale). Quasi nessuno presta attenzione a un dispaccio dell'agenzia Agir datata 22 maggio (Agir è una delle decine di foglietti del sottobosco politico romano), diretta da Vittorio Sbardella, potente ex andreottiano. Questi prevede uno stato di improvvisa emergenza per un "bel botto esterno, qualcosa di drammaticamente straordinario". Alle 17.55 questo avviene.

L'autostrada Palermo Punta Raisi, in località Capaci, si solleva come un muro di fuoco al passaggio del convoglio che trasporta il giudice Giovanni Falcone. Nel più grande attentato mai visto in Europa dalla fine della guerra - 800 chili di esplosivo in un canale di scolo, un telecomando azionato a 400 metri di distanza - muoiono Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, gli agenti Vito Schifani, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo. Si salva l'autista Giuseppe Costanza e la sua vicenda chiama in causa l'esistenza del Fato. Falcone aveva chiesto di guidare "per rilassarsi" Costanza si era seduto sul sedile posteriore, nel posto che sarebbe stato del giudice (se fosse rimasto alla guida, la Storia sarebbe cambiata). Nella notte, il centro di Palermo si riempie di lenzuola bianche appese ai balconi, "No alla mafia". Il 25 maggio Oscar Luigi Scalfaro, novarese, tradizionalista, democristiano "senza correnti", presidente della Camera, viene eletto nono presidente della Repubblica con 672 voti. La sua prima presenza pubblica sarà a Palermo ai funerali delle vittime di Capaci, in una tremenda tensione emotiva. Quando tutto sembrava essere finito, quando il paese era in vacanza, ecco il 19 luglio, di nuovo a Palermo.

Un'autobomba in una caldissima domenica pomeriggio distrugge la vita del giudice Paolo Borsellino (il magistrato che avrebbe dovuto prendere il posto di Falcone alla guida della Procura nazionale antimafia) e della sua scorta. È a questo punto - quando veramente sembra che l'Italia non esista più - che arriva l'esercito in Sicilia e un ponte aereo trasporta centinaia di mafiosi incarcerati nell'isola di Pianosa, una specie di Guantanamo ante litteram. Ma, davvero, il 1992 non era ancora finito.

Il livello di corruzione che l'Italia politica aveva espresso (tale che nemmeno la magistratura di Milano sembrava comprenderlo appieno); il livello di violenza terroristica che la mafia aveva scatenato; le pulsioni secessioniste di un Nord economicamente annichilito e senza rappresentanza politica; tutto questo ebbe il suo esito nella più grave crisi finanziaria italiana dal dopoguerra, prima dell'attuale. I Bot non venivano sottoscritti, la Banca d'Italia riusciva, ma solo con l'esborso di 40.000 miliardi, ad impedire il crollo della nostra moneta. Toccò al governo di Giuliano Amato (il socialista che era succeduto a Giulio Andreotti) imporre, in una notte, un prelievo forzoso da tutti i conti correnti; toccò ai sindacati firmare un accordo in cui rinunciavano per due anni ad aumenti salariali e alla indicizzazione della scala mobile. La lira, svalutata del 7 cento, ridiede così un po' di competitività alle esportazioni e ci salvò dal baratro. Ad ottobre, il grande pentito di mafia Tommaso Buscetta - ormai una specie di oracolo - tornò dagli Stati Uniti per annunciare anche agli italiani quello che aveva già detto dieci anni prima all'Fbi; e cioè che Giulio Andreotti era il capo politico di Cosa Nostra.

Il 3 dicembre il magistrato Domenico Signorino, uno dei giudici che aveva retto l'accusa contro Cosa Nostra al maxiprocesso di Palermo, si suicidò, dopo essere stato accusato di essere al soldo della mafia. Il 15 dicembre il segretario del Psi, Bettino Craxi ricevette l'avviso di garanzia che determinò la sua fine politica e personale (pochi mesi dopo, partendo per la Tunisia, dichiarò: "Non starò qui a prendermi le bombe"). La Democrazia cristiana, da sempre il partito di riferimento degli italiani, nello stesso periodo cessò, anche formalmente, di esistere. Alla vigilia di Natale, Bruno Contrada, il capo dei nostri servizi segreti con competenza sulla Sicilia, fu arrestato con l'accusa di avere protetto, per anni, la mafia. E, finalmente, l'anno finì.

Il 1993 sarebbe stato ancora più drammatico e violento. Si aprì con l'arresto spettacolare di Salvatore Riina (il latitante imprendibile viveva da sempre e tranquillamente a casa sua a Palermo, con moglie e quattro figli; e la sua cattura - oggi si sa - fu una colossale farsa); continuò con l'incriminazione di Andreotti per mafia; i suicidi eccellenti (il potentissimo presidente dell'Eni Gabriele Cagliari e il più ricco industriale italiano, Raul Gardini); fu costellato dalle tremende bombe mafiose di Firenze, Roma e Milano e terminò con la più inattesa delle novità: la discesa in campo in politica di Silvio Berlusconi, uno dei pochissimi industriali milanesi che era passato indenne dalle inchieste di Mani pulite, e che godeva di solidi appoggi finanziari nella Sicilia di Cosa Nostra. Il suo (imprevisto) dominio sull'Italia è durato diciassette anni. Un altro beneficiato dagli eventi fu il magistrato Antonio Di Pietro, che divenne prima un "eroe italiano", poi un uomo politico di una certa importanza che dura tuttora. La cronaca è il racconto degli avvenimenti così come si susseguono nel tempo. La storia è il senso di quegli avvenimenti. Ma purtroppo, il "senso di quel 1992" ancora non lo conosciamo.

La magistratura di Milano salvò il Pci-Pds? Bettino Craxi (il cattivo numero uno dell'epoca) fu affossato perché si era opposto agli americani ai tempi di Sigonella? Cosa Nostra determinò l'eliminazione di Andreotti dalla competizione per il Quirinale? Paolo Borsellino fu ucciso perché si era opposto ad una trattativa tra lo Stato e la mafia? Marcello Dell'Utri, il fondatore del nuovo partito di Forza Italia, agiva come emissario di Cosa Nostra? La Lega e Cosa Nostra perseguivano l'obiettivo comune della divisione dell'Italia? O gli avvenimenti si susseguirono senza alcuna regia? Ognuno metta in una busta la sua spiegazione. La verità - ma solo almeno tra cinquant'anni - sarà premiata dalle autorità competenti. Nel frattempo, in occasione del ventennale, ricordiamo commossi il 1992, gli eroi uccisi, l'indignazione popolare, la società civile, l'anelito risorgimentale. E pazienza se la corruzione e la mafia sono più forti di venti anni fa.

La Repubblica, 09 febbraio 2012

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