lunedì, agosto 16, 2021

INTERVISTA A MARCELLE PADOVANI: “Cara Italia che dimentichi e ti sottovaluti”

Giovanni Falcone e Marcelle Padovani

CONCETTO VECCHIO
Trastevere e Trentin, Sciascia e Falcone, Draghi e la Lega: 50 anni di ricordi di una giornalista nel nostro Paese
Marcelle Padovani, cosa ricorda del suo impatto con Roma? 
«Erano i primi anni Settanta e nelle sere d’estate gli abitanti di Trastevere piazzavano i tavolini davanti agli usci per cenare alfresco». 
Quanti anni aveva? 
«Ventotto». 
E lui? 
«Quarantaquattro. Andammo a cena e rimasi ipnotizzata dal suo sguardo». 
Era sposato? 
«Separato. Lasciò la sua compagna di allora. Ci sposammo nel 1975». 

Quando iniziò come corrispondente? 
«Nel 1974. Volevo vivere con Bruno e chiesi di essere trasferita a Roma. Il giornale non era interessato. Solo dopo le mie insistenze mi accontentò riducendomi però lo stipendio a 50mila lire al mese: era un ventesimo della mia retribuzione di allora. Accettai. Soltanto l’anno dopo tornai al mio stipendio originario». 
Dove andaste a vivere? 
«A Trastevere. E qui accadde un episodio incredibile. Un giorno Bruno rientrò a casa affranto: “Mi hanno rubato il borsello dalla macchina!”. Mentre stavamo cercando di capire cosa gli avevano portato via squillò il telefono: era il segretario della sezione Pci di vicolo del Cinque. “Compagno Trentin, i ladri si scusano per averti sottratto il portafogli. Le pipe però le hanno già vendute». 
Cosa l’affascinava dell’Italia degli anni Settanta? 
«Il fatto che fosse un laboratorio. Nel senso che qui le cose avvenivano prima che nel resto d’Europa, dal terrorismo alla mafia. Lo Stato era alle prese con fenomeni senza eguali e doveva capire come venirne a capo. Tutto questo era terribile ma anche affascinante per un giornalista. Gli italiani dimenticano troppo in fretta questa loro natura di laboratorio, un luogo cioè dove si mescolano elementi raffinati e complessi che esigono risposte altrettanto raffinate e complesse. Nella lotta contro la mafia e il terrorismo lo Stato alla fine ha vinto nella sorpresa generale. Lo stesso sta avvenendo col populismo». 
Il populismo è sconfitto? 
«Lo sarà. Per populismo mi riferisco a quello dei Cinquestelle, perché Matteo Salvini è un soltanto demagogo opportunista che ricorre al populismo quando gli serve». 
Come nacque “La Sicilia come metafora”, il libro intervista di Leonardo Sciascia? 
«In Francia i suoi libri suscitavano sempre un grande interesse. Lo intervistai per il giornale. Un editore mi propose di farne un libro. Fino a quel momento Sciascia aveva detto di no a tutti». 
Che tipo era Sciascia? 
«Parlava soltanto della Sicilia, di Parigi, della mafia e di Racalmuto. Mai dell’Italia». 
Quando ha conosciuto Giovanni Falcone? 
«Nell’autunno del 1983 si cominciò a parlare di un capomafia, che detenuto in Brasile aveva deciso di collaborare con Falcone. Era novembre e volai a Palermo. Alle sette di sera la Procura era deserta. Salii al secondo piano, e superai due porte blindate, davanti alla seconda Falcone aveva fatto piazzare una telecamera. Entrai e mi gelò: “Il nostro incontro salta, devo correre all’Ucciardone”. “Possiamo cenare insieme?”, obiettai. “Non mi sembra molto igienico”, rispose”. 
E lei? Che anno era? 
«Bel cafone», pensai. Disse: “Domani mattina alle sette vado a Roma, si faccia trovare a Punta Raisi, così viaggiamo insieme e facciamo l’intervista in volo”. Trovai in fretta un biglietto e mi presentai in aeroporto. Sull’aereo ci misero accanto, ma sfortuna volle che vicino a noi ci fosse anche Marco Pannella, che, mi disse Falcone, era venuto a consegnare la tessera radicale al boss Michele Greco. “Non mi sembra il caso di farla qui”, tagliò corto Falcone». 
Rido. 
«Arrivati a Roma Falcone mi spiegò: “Vada a casa, che all’ora di pranzo la mando a prendere”. Ero definitivamente furibonda. Intorno alle tredici arrivò davvero un ufficiale della guardia di finanza, che mi condusse in una caserma di periferia. Entrai e trovai la tavola imbandita e il fuoco del camino acceso. Parlammo per due ore. L’intervista uscì il 30 dicembre col titolo: “Il piccolo giudice e la mafia”. 
Che uomo era Falcone? 
«Parlava solo di mafia. Non mostrò mai il minimo interesse per la mia vita. Non mi chiese mai da dove venissi, che studi avessi fatto, niente di niente. Era monotematico, da qui è derivata la sua proverbiale efficienza, il suo professionismo. Come tutti i siciliani colti aveva il gusto per il racconto, era pieno di dettagli, ma inseriti dentro concetti più vasti. Per scrivere Cose di cosa nostra ci vedevamo in un ristorante a Roma, lui mangiava con gusto e io prendevo appunti, perché mi chiese di non registrare. Alla fine ero distrutta. Falcone invece ordinava, anche col caldo, una vodka». 
«Bruno mi disse: “Invitiamo Giovanni a cena, dobbiamo festeggiare”. Accettò. Parlammo dell’attualità politica, dell’irredentismo altoatesino, di Mahler che aveva avuto lì una casa, e la figura di Giovanni si rimpiccioliva nella sedia: si annoiava. A un certo punto feci riferimento a una notizia di cronaca che riguardava il figlio di Stefano Bontate e si ridestò di colpo, raddrizzandosi sulla sedia». 
Era già al ministero, e la sinistra lo criticava per la sua collaborazione con il ministro Martelli. È stato un grave errore contestarlo? 
«L’errore è doppio. Nel non avere capito l’importanza decisiva del suo codice antimafia e nel non avere mai fatto autocritica. Falcone viene incensato, senza essere studiato. Chiunque parli di mafia lo cita, spesso a sproposito. Da vivo fu molto solo, si contavano sulle dite di una mano i magistrati che lo sostenevano, i più lo criticavano per il suo presunto protagonismo mediatico». 
Non era vero? 
«Per niente. Falcone non amava i giornalisti. In vita sua rilasciò pochissime interviste». 
Cosa pensa del sottosegretario Durigon? 
«È la conferma che i cattivi a volte riposano, gli imbecilli no». 
Mario Draghi deve restare a palazzo Chigi o farsi eleggere al Quirinale? 
«Rimanere a Palazzo Chigi. Ne va della credibilità dell’Italia a livello europeo. Sarebbe auspicabile che Mattarella accettasse un secondo mandato». 
Cosa ha capito di noi italiani? 
«Siete un popolo che si sottovaluta, al contrario di noi francesi che ci sopravvalutiamo. Anche se a volte sorrido della vostra capacità di autoesaltazione. Alle Olimpiadi avete conquistato dieci medaglie d’oro, come Germania, Francia, Olanda, eppure avete esultato come se foste arrivati primi». 
Lavora ancora? 
«Continuo a scrivere per Nouvel Observateur , purtroppo più per il web che per il magazine. E cerco anche di mettere in piedi un libro: il mio decimo dedicato all’Italia». 
Si sente ormai italiana? 
«Né italiana, né francese. Sono una corso-trasteverina». 

La Repubblica, 15/8/2021

1 commento:

Unknown ha detto...

Bè. è proprio una cavolata quella che sto per dire! Ma credo che l'esaltazione per le dieci medaglie d'oro sia dovuta al fatto che giungevano in larga misura dall'atletica con inclusa la gara regina dei cento metri! Ma ve li immaginate i francesi che vincono cento e staffetta e rimangono impassibili!?! E chi li teneva farmi !!!
Ciò detto, ho grande stima e simpatia per la Padovani che, per me, rappresenta quello che nel migliore dei mondi possibili dovrebbe essere un giornalista. Un contorto ma lucido miscuglio di coraggio, onestà intellettuale e visione.
Claudio Cappelli