venerdì, maggio 17, 2013

Le mie parole per il professore Francesco Renda

Francesco Renda
di SALVATORE NICOSIA
ln un passo delle sue Storie, il grande storico greco Erodoto introduce un colloquio tra l’ateniese Solone, uno del Sette Sapienti, e un re orientale di nome Creso, ricchissimo e potente. Quest’ultimo chiede al saggio ateniese chi è, a sua conoscenza, l’uomo più felice sulla terra: sperando in cuor suo di essere indicato proprio lui, per i suoi averi e la sua potenza, come l’uomo più felice. E invece Solone non lo prende in considerazione, e colloca al primo posto un certo Tello, cittadino ateniese che “ebbe figli valenti e onorati, ... e vide i figli dei suoi figli”... e per essere morto in battaglia “gli furono tributati grandi onori dai suoi concittadini”. E al secondo posto, sempre ignorando la presunzione di felicità del suo interlocutore, pone due fratelli che avevano conseguito molte vittorie atletiche, e durante una festa cittadina avevano reso possibile lo svolgimento di un rito fondativo trasportando un carro al posto dei buoi che non arrivavano dalla campagna. E comunque il saggio Solone esclude da ogni pretesa di primato di felicità il re Creso perché è ancora vivo, e nessun uomo può essere chiamato felice se non trascorre l’intero arco della vita, fino agli ultimi giorni: perché ancora in essi si possono verificare eventi così sconvolgenti da oscurare la trascorsa felicità e far prevalere la tenebra del dolore.
Dunque, secondo il sapiente Solone, e trasponendo il sistema di valori antichi in quello moderno, la possibile felicità tra gli uomini consiste: a) nel perpetuarsi della generazione senza inversioni nell’ordine delle cose (“vedere i figli dei figli”, non vederli morire, come pure accade); b) nel realizzare imprese gloriose (le vittorie atletiche, che in Grecia godono di uno statuto elevatissimo); c) nel contribuire all’armonico sviluppo della società, con i suoi riti e la sua vita civica: a condizione, in tutti e tre i casi, che ogni giudizio di felicità sia espresso soltanto quando siano trascorsi tutti i giorni della vita.
Sono convinto che il senso di questo “discorso sulla felicità umana” fatto da un autore del V sec. a.C. si adatti alla vicenda esistenziale di Francesco Renda, che nel complesso appare dominata da una assoluta coerenza.
A fondamento di tutto c’è l’esperienza della fanciullezza e della giovinezza vissute nel contesto di sfruttamento e di miseria che caratterizzava la Sicilia interna del grano, dell’argilla e dello zolfo ancora nel dopoguerra, e che faceva apparire la collocazione politica democratica come un dovere dell’intelligenza e dell’etica. L’opera del sindacalista, dell’organizzatore del movimento contadino, del dirigente della federterra, è volta a migliorare condizioni di vita intollerabili, a rivendicare diritti inesistenti o misconosciuti, a difendere la dignità del lavoro. E in forme diverse, le stesse finalità informano la lunga attività di parlamentare, prima alla Regione siciliana, poi al Senato. Quando decide di lasciare la politica attiva, e di potenziare le precedenti prove saltuarie di ricerca storica, trasferisce in questa nuova attività tutto il patrimonio di conoscenze che gli deriva dall’impegno politico di decenni. Basta scorrere i titoli e i temi delle sue principali opere:
Risorgimento e classi popolari in Sicilia (1968), I Fasci siciliani 1892-94 (1977),
Movimenti di massa e democrazia nella Sicilia del dopoguerra (1979), Contadini e democrazia in Italia (1980), Il 1° maggio 1889 (1990)E poi ancora L’espulsione deiGesuiti dalle Due sicilie (1993)La fine del giudaismo siciliano (1993),L’inquisizione in Sicilia (1997)La storia della mafia (1997), fino alla monumentaleStoria della Sicilia, ineludibile punto di riferimento per gli studi sulla Sicilia dall’unità al 1970.
L’orientamento politico si manifesta nella scelta dei temi, senza pregiudicare il dovere di obiettività e di rigore che si chiede allo storico. Ed è come se l’esperienza vissuta da sindacalista e da politico si integrasse con l’attività storiografica, conferendo a questa il fascino derivante da una profonda immersione nella realtà.
Né si discosta da questo quadro coerente di pensiero e di azione la creazione di questo Istituto intestato ad Antonio Gramsci, con il suo straordinario patrimonio librario e archivistico finalizzato alla ricerca storica, che egli ha organizzato e diretto per quindici anni fin dal momento della fondazione nel 1978; e che oggi gli rivolge con affetto inestinguibile l’estremo saluto in tutte le sue componenti: comitato scientifico, consiglio di amministrazione, collaboratori, soci e socie, lettori e utenti.

A me pare che ci siano, nella vicenda umana e intellettuale di Francesco Renda, tutti gradi del discorso erodoteo sulla felicità: nella misura – beninteso – in cui può essere felice l’uomo in quanto creatura mortale. Vedere i figli e i figli dei figli, ed essere da loro amorevolmente e rispettosamente assistito fino alla fine, come a lui è accaduto, è il primo grado. Lavorare per il bene della polis, per il miglioramento della società, gli è riuscito nella sua opera di sindacalista e di politico. E le sue qualità di studioso e docente insigne, il rigore morale, la lunga e proficua esistenza, gli hanno conferito il ruolo di guida autorevole e ascoltata per la politica, per gli studi, per la vita cittadina.
C’è poi l’ultimo grado, quello che induce Solone a negare al re Creso la qualifica di felice, perché non ha ancora esaurito i suoi giorni, e tutto ancora può accadere: einfatti i Persiani conquisteranno la Lidia, e il re Creso sarà posto sul rogo con moglie e figli.
Ora che Francesco Renda ha cessato di vivere, e il bilancio esistenziale non può essere sconvolto da altre incognite, possiamo dire che egli ha superato anche quest’ultima condizione. Il mio ricordo dei suoi ultimi mesi è quello di una straziante lotta fra l’intelletto e il corpo, lo spirito e la materia: da un lato una intelligenza viva e lucida che lo portava a dare sistematicità storiografica a sempre nuovi eventi o argomenti, dall’altro un corpo che nell’esplicazione della sua funzione di supporto mostrava segni di  invalidità. Ancora una settimana prima della fine mi parlò con entusiasmo di una sua monografia sulla Ducea di Nelson, e mi chiese di collaborare con lui, mostrandosi grato e rassicurato della mia dichiarata disponibilità a fornirgli un sostegno che in realtà capivo che non avrei fatto in tempo a dargli. Quando questa inscindibile unità di materia e intelletto si è scissa, Francesco ha cessato di vivere. Felice anche in questo caso, per non aver subìto ciò che comunemente accade ai più: e cioè di sopravvivere penosamente, per un tempo più o meno lungo, all’avvenuta scissione della sintesi di cui l’uomo è il risultato.
Un’ultima felicità: se è vero, come scrive Borges, che “un uomo può dirsi veramente morto quando muore l’ultimo uomo che l’ha conosciuto”, Francesco continuerà a vivere ancora a lungo nel ricordo di chi lo ha conosciuto, stimato e amato. E quando anche questa memoria personale si farà flebile, e scomparirà del tutto, rimarranno le sue opere a testimoniare e comporre una coerente figura di studioso e di uomo d’azione che lega alle future generazione un lascito straordinario di conoscenza e di esemplarità.

Salvatore Nicosia




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