sabato, marzo 09, 2024

21 marzo 2024, giornata della memoria e dell’impegno per le vittime innocenti delle mafie. Nomi e storie da non dimenticare: da quest’anno c’è anche LIBORIO ANSALONE

Liborio Ansalone, comandante dei VV.UU. di Corleone


Tra i 12 nomi inseriti quest’anno da Libera c’è quello di LIBORIO ANSALONE, comandante dei Vigili Urbani di Corleone. Siamo contenti di avere contribuito con la ricerca e la scheda inviata a Libera ad onorare la memoria di questo degno figlio di Corleone (dp)

Dal 1861 a oggi sono 1081 i nomi dell'elenco delle vittime innocenti delle mafie, che Liberacura da 29 anni. 1081 storie che ripercorrono tutta la storia d'Italia, dall'Unità fino all'anno scorso, dimostrando così che, almeno in alcuni territori, le mafie continuano a sparare.

I nomi inseriti quest’anno in elenco sono dodici. Dodici storie di cui siamo venuti a conoscenza grazie alle segnalazioni di tanti cittadini e cittadine, che scavando nella memoria dei propri territori, hanno contribuito a farle riemergere dall’oblio.

(In coda LA SCHEDA BIOGRAFICA di Liborio Ansalone redatta da DINO PATERNOSTRO)

Dodici storie che vogliamo raccontare brevemente, perché non si tratta solo di vicende familiari, ma di storie che ci parlano dei nostri territori, di violenze mafiose che hanno colpito non solo le vittime e le loro famiglie, ma l'intera comunità. 

Salvatore Di Stefano. Le tracce di questa storia si trovano nel Rapporto Sangiorgi, scritto dal Questore di Palermo tra il 1898 e il 1900. Di Stefano era un vaccaro di 18 anni. Fu ucciso il 21 luglio 1898, a Torretta (PA), perché testimone oculare di un omicidio di mafia.

Liborio Ansalone. Comandante dei vigili urbani di Corleone, nel 1926 partecipò alla retata del prefetto Mori, indicando al delegato le abitazioni dei mafiosi di Corleone. Una volta finita la guerra, nel 1945, Liborio Ansalone fu freddato al rientro nella propria abitazione da un sicario di Michele Navarra, celebre capomafia corleonese, memore dell’episodio del 1926.

Mario Scuderi. È una delle 108 persone che persero la vita nella strage di Punta Raisi del 23 dicembre 1978. Era sul volo di linea Alitalia 4128, partito da Roma Fiumicino e precipitato nel Mar Tirreno, qualche km a nord dell'aeroporto di Punta Raisi. Mario tornava dalla sua famiglia per il Natale, dalla sua compagna di vita, che in grembo portava la loro figlia, Cristina.

Gioacchino Rubino. Faceva il tassista. Fu ucciso il 9 aprile del 1979 a San Giuseppe Jato (PA), perché ritenuto in possesso di informazioni, proprio a causa del suo lavoro.

Giuseppe Napolitano. Aveva 52 anni quando venne trucidato, il 22 febbraio del 1991, a Messina, davanti al suo negozio di giocattoli che in precedenza era stato incendiato dal racket ben cinque volte. Ma lui aveva sempre detto no al pagamento della “protezione” e aveva rimesso in piedi la sua bottega di giocattoli.

Giuseppe Leone. Agricoltore e orchestrale di 63 anni. Fu ucciso nel 1991 a Surbo (LE) perché testimone di un delitto di mafia.

Giuseppe Torre. Appena 18enne, è stata torturato e bruciato nel febbraio del 1992, a Misterbianco (CT). I sicari del gruppo del Malpassotu (alias Giuseppe Pulvirenti, ormai scomparso) attirano il giovane fingendosi esponenti delle forze dell’ordine e poi lo sequestrano. Vogliono informazioni sul covo di Gaetano Nicotra, all’epoca latitante. Il rivale mafioso aveva una relazione con la madre di Torre, che però da tempo viveva con i nonni. Infatti, nemmeno le torture più strazianti portarono delle risposte. Giuseppe fu ammazzato nel modo più terribile. Bruciato in mezzo ai copertoni nella sciara etnea. Alcuni raccontano di aver visto i piedi muoversi. Forse quando è stato appiccato il fuoco era ancora vivo.

Rosario Adamo. Conosciuto da tutti come “Saro”, era il proprietario dell’omonima gioielleria sita in Rosolini (SR). Padre di tre figli, fu ucciso il 7 novembre 1994 da quattro giovani appartenenti ad un clan mafioso, durante un tentativo di rapina. La sua unica colpa fu quella di cercare di difendere ciò che di più prezioso aveva costruito in quegli anni: il suo lavoro e la sua famiglia. In particolare, cercò di proteggere la moglie che era stata aggredita, nel tentativo di rapina.

Giulio Giaccio. Due affiliati al clan Polverino sono stati arrestati 22 anni dopo per l’omicidio di Giulio Giaccio, ragazzo di Pianura (NA) di 26 anni, rapito ed ucciso barbaramente da camorristi per un mero errore di persona.Il giovane era stato scambiato per un altro uomo, che aveva una relazione con la sorella dei due killer.

Giuseppe Femia. Fu ucciso il 9 febbraio 2004 a Cittanova (RC), perché suocero di Girolamo Bruzzese, collaboratore di giustizia.

Berta Caceres. Attivista per i diritti umani ed ambientali della sua terra, è stata uccisa a Tegucigalpa, in Honduras, il 3 marzo 2016. Berta Cáceres faceva parte di una lista di obiettivi da eliminare nelle mani dell’esercito honduregno. La stessa Berta Cáceres, in passato, aveva segnalato più volte di essere stata oggetto di minacce di morte e di far parte di una lista nera nelle mani dello Stato a causa della sua opposizione alla costruzione della diga di Agua Zarca, ma questo non ha impedito alla Fuerza Nacional de Seguridad Interinstitucional Fusina di ucciderla. 

Francesco Pio Maimone. 18 anni, è stato ucciso da un colpo di pistola vagante il 20 marzo 2023 agli chalet di Mergellina, sul Lungomare di Napoli. Il gip del Tribunale di Napoli, su richiesta della Dda partenopea, ha disposto il carcere per quattro ragazzi, mentre per tre ragazze sono stati disposti gli arresti domiciliari. Sono accusati, a vario titolo, di detenzione di armi comuni da sparo e favoreggiamento, reati aggravati anche dalle modalità mafiose.

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LA SCHEDA BIOGRAFICA 

di Liborio Ansalone 

redatta da DINO PATERNOSTRO


Sembrava una sera come tante altre, quella del 13 settembre 1945 a Corleone. Non c’era più la calura estiva e la gente indugiava volentieri per strada a respirare un po’ d’aria fresca. Fece così pure Liborio Ansalone, il comandante dei vigili urbani del paese. Si era soffermato in piazza, davanti al municipio, chiacchierando con qualche conoscente, poi era entrato in un negozio a comprare del bicarbonato e, lentamente, col pacco sottobraccio, si stava avviando verso casa, in Piazza Nascè. All’improvviso si udì il crepitare di alcuni colpi di fucile, proprio in direzione del comandante. Ansalone cadde supino al centro della piazza, accanto alla fontanella in ghisa, dalla quale continuava a zampillare l’acqua. Era stato colpito all’addome da tre proiettili, che l’avevano ucciso. Doveva ancora compiere 61 anni. Infatti, era nato a Corleone l'11 novembre 1884.


Chi aveva sparato al comandante dei vigili urbani di Corleone? E perché proprio a lui? Se lo chiedevano i passanti, che guardavano il suo corpo senza vita per terra. Ma, più ancora, se lo chiesero la polizia e i carabinieri, accorsi sul luogo del delitto per le prime indagini. Non fu facile trovare la risposta, perché Ansalone pare che non avesse avuto contrasti con nessuno. Era figlio dello storico segretario comunale, Nicolò Ansalone, autore anche di una storia della città di Corleone, rimasto per circa 50 anni al vertice della burocrazia municipale. Da tempo era sposato, aveva avuto ben sei figli - Maria, Clara, Nicola, Fausta, Giovanni e Umberto - che però da qualche anno abitavano a Palermo, insieme alla madre, per motivi di studio. In paese era rimasto solo lui con la figlia più grande, Maria, che stava svezzando il secondo nipotino del comandante. E non abitava più nella vecchia casa di famiglia di Via Santa Caterina, ma in un appartamento preso in affitto presso l’Istituto Canzoneri.


Allora, perché era stato assassinato Liborio Ansalone? In assenza di risposte certe, che nemmeno la magistratura riuscì a dare (dopo mesi di indagini a vuoto, il delitto fu archiviato come “a carico di ignoti”), bisogna accontentarsi delle “voci” che allora circolarono in paese. A quanto pare, Ansalone pagò un conto molto lontano nel tempo. Un conto antico, datato 20 dicembre 1926, il giorno della famosa “retata” del prefetto Mori a Corleone. Fu alle prime luci dell’alba di quel giorno che l’allora giovane comandante dei vigili urbani aveva guidato i militari di Cesare Mori per le vie del paese, indicando una per una le abitazioni dei mafiosi d’arrestare, che erano segnate su dei fogli di carta. Non era facile spiegare che allora il comandante non avrebbe potuto sottrarsi all’ordine del prefetto di ferro senza finire in galera o al confino. Anche perché in certi ambienti qualcuno diceva «che il comandante ci avesse goduto». Sarà stato questo “qualcuno”, in quei convulsi mesi del secondo dopoguerra, a rivolgersi a don Michele Navarra, fresco capomafia del paese, per avere l’autorizzare a saldare al comandante quel vecchio conto in sospeso. Don Michele, evidentemente, non si fece pregare e diede il “via libera” per togliere di mezzo “uno sbirro”, che si era permesso di “aiutare” Cesare Mori, mettendosi contro i “fratuzzi” di Corleone. Contro i “paesani”. La stessa amministrazione comunale del tempo, alla cui guida gli Alleati avevano messo l’anziano contadino socialista Vincenzo Schillaci, affiancato però da Leonardo La Torre e Salvatore Cutrera, due mafiosi doc, di fronte ad un delitto così clamoroso, si limitò a pagare le 7.600 lire di spese per il funerale. E basta.


D’altra parte, nella Corleone degli anni ’40, simili regolamenti di conti erano la norma. Appena pochi mesi prima, il 28 marzo 1945, non erano stati Luciano Liggio con suo “compare” Giovanni Pasqua ad assassinare sotto porta di casa la guardia campestre Calogero Comaianni? E qual era la colpa di Comaianni, se non quella di avere fatto il proprio dovere, arrestando Liggio e un suo complice, sorpresi a rubare dei covoni di grano in campagna? In fondo, ad Ansalone fu imputata una colpa simile. Quella, cioè, di essersi messo a disposizione dell’autorità statale del tempo, facendo semplicemente il suo dovere. Allora fu considerato uno “sbirro”. Oggi, possiamo dire correttamente che si era messo dalla parte della legge.


A dare “l’autorizzazione” per l’assassinio del comandante dei vigili urbani, Liborio Ansalone, dovette sicuramente essere don Michele Navarra, da poco tempo capomafia di Corleone. Ma, fino all’ultimo, l’ascesa di don Michele al vertice della Cosa Nostra di Corleone fu in bilico. Il “predestinato”, il personaggio scelto direttamente dal “grande” Luchy Luciano, era un boss siculo-americano, originario di Corleone, Vincenzo Collura, conosciuto come “mister Vincent”. Gli amici di Lucky lo fecero tornare apposta dagli Stati Uniti per l’investitura ufficiale, ma Collura venne a trovarsi di fronte al fatto compiuto. Don Michele, che per parte di madre era nipote di Angelo Gagliano, un mafioso della vecchia guardia, assassinato nel 1930, riuscì a farsi eleggere capomafia di Corleone, grazie ai “buoni uffici” di un capitato dei marines americani, Angelo Di Carlo. Questi era emigrato negli States nel lontano 1926, per sfuggire alla repressione di Mori. E lì s’inserì perfettamente nella Cosa Nostra americana. Poi si arruolò nei marines e partecipò allo sbarco alleato di Sicilia, “garantendo” che la “sua” Corleone si sarebbe consegnata agli anglo-americani senza nessuna resistenza.


Una volta a Palermo, pensò di giocarsi le sue carte per concorrere a determinare il nuovo capomafia di Corleone, che avrebbe dovuto sostituire don Calogero Lo Bue, considerato ormai “vecchio” e “non adeguato ai nuovi tempi”. Sfruttando i buoni rapporti col comandante dell’AMGOT Charles Poletti, tirò la volata a suo cugino Michele Navarra. Infatti, don Michele ed Angelo Di Carlo avevano questo stretto legame di parentela. Su consiglio del capitano dei marines, il medico-boss riuscì a precedere Collura, che dovette poi rassegnarsi ad un ruolo di secondo piano, anche se altrettanto importante. Fu nominato, infatti, vice di Navarra, che gli affidò il controllo della parte bassa del paese. La parte alta, invece, don Michele la riservò ad un suo fedelissimo, Antonino Governali, inteso “Fungidda”. Ovviamente, Navarra e Collura non andarono mai d’accordo. E, nel 1957, don Michele saldò definitivamente il conto al rivale, facendolo assassinare in piazza S. Agostino.

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