mercoledì, marzo 20, 2024

Michela Buscemi, 85 anni, testimonial della giornata contro le mafie. “I boss mi dicevano spiona, fui la prima a ribellarmi e ancora oggi li combatto”


“Ho fatto i nomi di chi uccise i miei fratelli. La mia famiglia mi allontanò, disse a tutti che ero pazza”

dalla nostra inviata Alessandra Ziniti

BALESTRATE — «Ogni volta che entravo nell’aula bunker ero costretta a passare davanti alle gabbie piene di mafiosi. Mi gridavano dietro “spiona, puttana”. Ma non ho mai abbassato la testa. C’era unvecchiereddu con il bastone in una gabbia e mi dicevo: ma guarda questo, che avrà mai potuto fare di male? Solo dopo scoprii che era Luciano Liggio». Nel 1986, quando da sola e contro tutta la sua famiglia, decise di costituirsi parte civile al maxiprocesso, Michela Buscemi, seppure nata e cresciuta in un quartiere popolare di Palermo dove l’unica legge era quella della mafia, di boss e cosche sapeva poco o nulla. Meno che mai aveva idea di essere diventata la prima donna a schierarsi contro le cosche, ruolo che ancora oggi, a 85 anni, sostiene con fierezza, in prima fila anche domani a Roma tra i familiari chiamati da Libera di Don Luigi Ciotti sul palco della giornata nazionale per le vittime di mafia al Circo Massimo. 
Signora Buscemi, perché decise di costituirsi parte civile? 


«Cosa nostra mi ha ucciso due fratelli. Ero la prima di dieci figli, li ho cresciuti io. Erano appena due ragazzi, una vita davanti, avevano bimbi piccoli e altri in arrivo. 
Pretendere giustizia per la loro morte mi sembrava il minimo, un dovere, non un atto di coraggio». 
Allora quasi nessuno aveva il coraggio di farlo. Neanche la sua famiglia lo fece, la lasciarono sola. 
«Si, mia madre (che pure all’inizio sembrava disponibile) si tirò indietro per paura e mi lasciò sola. Anzi fecero di peggio; tutti quanti, compresi gli altri fratelli e sorelle, mi allontanarono, dissero ai giornali che ero pazza. Da allora sono passati 40 anni, non ho mai più avuto alcun contatto con loro. Una madre chenon combatte per i suoi figli non è una madre. Mi dispiace, siamo proprio diversi». 
Un prezzo molto alto da pagare soprattutto per una donna con una famiglia così numerosa, costretta a non studiare per crescere i suoi fratelli. 
«Mio padre (che per anni mi ha anche usato violenza ) mi picchiava se scopriva che andavo a scuola. E anche mia madre, che sapeva solo fare un figlio dietro l’altro, migridava. A 10 anni lavoravo già in una fabbrica di pesce, dormivamo tutti in una stanza senza bagno né cucina. 
Ma con la mafia non avevamo nulla a che fare». 
Perché i suoi fratelli furono uccisi? 
«Il più grande, Salvatore, si era messo nel traffico delle sigarette senza chiedere permesso ai boss del quartiere. Lo uccisero a colpi di lupara calibro 38 in una bettola dove era con un altro mio fratello,Giuseppe, che rimase ferito. Il più piccolo, Rodolfo, a cui ero particolarmente legata, si era messo in testa di trovare le prove per far arrestare gli assassini di suo fratello. 
Nel quartiere lo avvisarono di farsi i fatti suoi ma lui insistette. Lo fecero sparire insieme a suo cognato, lo portarono nella camera della morte di Sant’Erasmo dove scioglievano la gente nell’acido. Con il suo cadavere non ha funzionato, lo hanno buttato a mare, non l’abbiamo mai ritrovato. 
Sua moglie, incinta, si è lasciata morire qualche mese dopo». 
Sa chi ha ucciso i suoi fratelli? 
«Certo, e ho fatto i nomi in aula: Marchese, Sinagra, Rotolo, i mandanti. Sono stati condannati. Tutti i loro scagnozzi a quei tempi uccidevano per 50 m ila lire». 
Michela, che prezzo ha pagato? 
«L’isolamento nella società. Con mio marito avevamo un bar che abbiamo dovuto chiudere, non veniva più nessuno dalla “spiona”. Ma non mi sono mai arresa. Sono andata a servizio in casa per ripagare mio marito dalle perdite. E sono fiera di aver cresciuto i miei cinque figli nel rispetto della legalità. È questo il messaggio che con la testimonianza della mia vita, da 40 anni provo a trasmettere a tutti i giovani che mi hanno voluto ascoltare». 
Va ancora nelle scuole, a 85 anni. 
«Vado dovunque mi chiamino. La prima volta che ho parlato in pubblico non riuscivo a credere che la mia storia interessasse a qualcuno. 
Poi ho capito quanto è importante spiegare ai ragazzi che devono ragionare con la loro testa, mai essere succubi di quello che cattivi genitori o ambienti pericolosi vogliono imporre. Se l’ho fatto io, donna sola contro tutti nella Palermo degli anni 80, possono farlo tutti senza paura». 

La Repubblica, 20 marzo 2024

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