domenica, maggio 09, 2021

Il libro di Dino Paternostro "La strage più lunga": gli anni di piombo della Sicilia che chiedeva diritti

L'occupazione delle terre in Sicilia (Renato Guttuso)

di 
UMBERTO SANTINO
Primo Levi, nel suo I sommersi e i salvati, parla di «derive della memoria», una reazione difensiva, da parte dei superstiti dell’Olocausto, per rendere meno intollerabile il ricordo di «un’offesa insanabile» . Ma più che una “ deriva” forse si dovrebbe parlare di una vera e propria rimozione, se si pensa che tanti sopravvissuti si sono decisi a raccontare quello che avevano vissuto soltanto dopo moltissimi anni. E non c’è solo l’Olocausto, una realtà tanto inaccettabile, al limite dell’incredibile, da doverla rimuovere. Gennaro Jovine, il protagonista di Napoli milionaria, di Eduardo De Filippo, tenta di raccontare gli orrori della guerra, ma i familiari non vogliono ascoltarlo. « La guerra è ‘ fernuta » , gli dicono, aggrappati come sono alla ragnatela dei contrabbandi, ma per lui la guerra non è “fernuta”, poiché per chi l’ha vissuta la guerra è un’esperienza incancellabile.

Questa rimozione della memoria è avvenuta anche per i protagonisti di questo libro di Dino Paternostro (“ La strage è più lunga. Calendario della memoria dei dirigenti sindacali e degli attivisti del movimento contadino caduti nella lotta contro la mafia”, Edizioni della Zisa), che finalmente ricostruisce, nome per nome, vita per vita, una storia che è stata in gran parte cancellata o rievocata per frammenti e con imprecisioni o fraintendimenti. E bisogna chiedersi perché e come è potuto accadere. La memoria non è un automatismo, ha bisogno di chi se ne assume l’impegno: una persona o un’organizzazione, un partito, un sindacato, un comitato, un’associazione che la considerano essenziale per la loro storia e la loro identità.


Facciamo qualche esempio. La memoria dei Fasci siciliani, che destarono interesse a livello internazionale, suscitarono consensi entusiastici e stroncature implacabili, è stata sotterrata perché il Partito socialista, che ne resse le fila, almeno per buona parte, è andato per altre vie, fino a naufragare nel pantano di Tangentopoli. Ma questo è accaduto anche per molti dei sindacalisti, militanti e dirigenti del movimento contadino caduti nel corso del Novecento. Non ne hanno mantenuto viva la memoria i familiari, tranne alcune eccezioni, perché non se la sono sentita, perché sono stati lasciati soli, perché sono andati via e, anno dopo anno, giorno dopo giorno, è sopravvissuto solo un ricordo sempre più sbiadito. Come la fotografia, spesso una fototessera, che mostrano a chi cerca di ridestare quel ricordo. Ma è un ricordo lontano, il fantasma di un’altra epoca, perché la storia è andata per altri percorsi, con i flussi migratori che spopolavano i paesi che avevano visto maturare quelle lotte, che erano stati insanguinati da quelle stragi e da quegli assassinii. Dei primi anni del Novecento si sono salvati i nomi di alcuni dirigenti sindacali o di partito che hanno lasciato tracce del loro operato, ma il nome di Giovanni Orcel, che ebbe un ruolo significativo come segretario della Fiom e tessitore di rapporti con il movimento contadino, non figura nei libri più noti su mafia e antimafia. Orcel è una figura scomoda, in contrapposizione con una linea “ riformista”, svilita da una pratica compromissoria con il padronato. E questo, assieme all’eliminazione del capomafia, indicato come responsabile del suo assassinio, una sorta di “giustizia proletaria”, in sostituzione dell’impunità istituzionale, può aver pesato nelle “ ragioni dell’oblio”.

Per i sindacalisti e i manifestanti uccisi nel secondo dopoguerra, c’è incertezza pure sul numero. Si parla di 39 vittime, compresi i caduti di Portella, dal 1944 al 1955; sarebbero 52 i dirigenti politici e sindacali morti per mano mafiosa dal 1944 al 1960, secondo l’elenco contenuto nella legge regionale n. 20 del 13 settembre 1999; 60 dal 1944 al 1968; 150 se si considerano anche le vittime della banda Giuliano e di altre bande e i caduti ad opera delle forze dell’ordine durante manifestazioni popolari, come la “ strage del pane” del 19 ottobre 1944 a Palermo. Ma in questi elenchi figura anche qualche personaggio vittima di scontri all’interno del mondo mafioso, come se la morte avesse azzerato conflitti e prese di posizione che hanno segnato un confine tra mafia e antimafia.

Questo libro è il frutto più maturo della strategia di recupero della memoria che ha visto la Cgil negli ultimi anni colmare un vuoto, con segni materiali, lapidi, targhe stradali, che possono essere i primi passi per rinnovare una toponomastica ferma al mito monarchico e risorgimentale, con pesanti risvolti sicilianisti: a Palermo, sul piedistallo del monumento a Francesco Crispi, il massacratore dei Fasci, c’è scritto: ”La monarchia ci unisce...” e le scuole sono intitolate a re e regine sabaudi, tra cui Vittorio Emanuele III, che aprì le porte al fascismo e firmò le leggi razziali. Sono questi gli esempi che offriamo ai nostri studenti. Le commemorazioni di figure dimenticate, considerate non come eventi rituali, ma parte integrante dell’azione sindacale, hanno tracciato un nuovo cammino e un buon tratto di strada è stato percorso con il Centro Impastato. Alla luce di queste esperienze si spiega l’adesione della Camera del lavoro di Palermo come partner del Centro nel progetto del Memoriale- laboratorio della lotta alla mafia.

Il sottotitolo del libro è “Calendario della memoria”, ma questo libro è più che un calendario, non è solo una sorta di santorale laico. Ricostruisce biografie individuali e le inserisce in un contesto. Riscopre una storia. La storia di un percorso di Liberazione che può considerarsi la Resistenza della Sicilia in lotta, a mani nude, contro un nemico che fa uso delle armi e considera la violenza come risorsa e strategia. Troppo spesso vincente. E la memoria, che ripercorre questa storia, come viene sottolineato nella citazione che apre il libro, è « una memoria d’amore » , come quella del soldato Mizushima del film di Kon Ichikawa,“ L’arpa birmana”, ma la Spoon River siciliana più che un cimitero abbandonato è un luogo d’incontro in cui ognuno ha il suo volto e il suo nome e racconta la sua vita.

La Repubblica Palermo, 29 aprile 2021

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