mercoledì, agosto 21, 2019

Il teschio del brigante e il fake di Lombroso

La leggenda del falso bandito. Qui sopra, Giuseppe Villella (1802-1864)
e, sopra, il suo cranio custodito al museo Lombroso di Torino
di Stefano Massini
Storia finita in Cassazione di una contesa tra Torino e la Calabria. Respinto il ricorso neoborbonico, il cranio di Giuseppe Villella resta al museo dedicato al padre della fisiognomica (e di tanti errori fatali)
Non era solo Amleto a dialogare col teschio in mano. Più o meno la stessa conversazione è toccata in sorte ai giudici della Corte di Cassazione, cui spettava pronunciarsi sul futuro domicilio del cranio di Giuseppe Villella, defunto dalla bellezza di 155 anni. Mai si ebbe verdetto più spinoso: essendo il Villella calabrese, natio di Motta S. Lucia, poteva finalmente il suo osseo muso tornare a casa, anziché restare nell’anonima teca di un museo torinese? La risposta, tanto per dirlo subito, è stata un no.
Ora, l’interesse della vicenda non sta ovviamente nella negata trasmigrazione di un cranio, quanto nei densi correlati che essa evoca sul tema antico dell’errore. Sì: l’errore. Perché si dà il caso che il suddetto Villella avesse maturato in vita un’invidiata fama di brigante, tale da spingere il celebre Lombroso a reclamarne il teschio per accurata analisi. Colpo di scena: il terribile malavitoso mostrava una fossetta occipitale! Era giusto l’anomalia anatomica in cui da tempo Lombroso anelava di imbattersi, per certificare che «i criminali nascono criminali ». Eureka. Quando si dice "la prova che mancava".

Villella fu insomma il passaggio decisivo, casuale e miracoloso, un po’ come la mela di Isaac Newton o la muffa che portò Fleming alla penicillina. È più che comprensibile, dunque, che il cranio rivelatore del perfido calabro faccia mostra di sé da decenni nel museo dedicato a Lombroso. Peccato solo che, a un’adeguata verifica dei fatti, non solo la teoria di Lombroso si sia mostrata aria fritta, ma sia andata in crisi anche la statura criminale del Villella: egli risulta aver rubato giusto qualche forma di cacio, ricotta, qua e là un filone di pane e forse un paio di capretti.
Non propriamente un Al Capone, né un Arsenio Lupin. Tant’è: non è dato sapere cosa o chi avesse promosso un furfantello qualunque al rango di spietato Billy the Kid, quel che è noto è che nel 1864, in quel di Pavia, il pericoloso criminale chiudeva gli occhi per sempre affetto da tifo, tosse e diarrea da scorbuto. E fu per lui la fine.
O meglio: lo sarebbe stata, se non fosse che una fossetta occipitale riaprì le danze servendo al Lombroso l’assist perfetto. Ma è moralmente accettabile che un povero Cristo figuri ai posteri per ciò che non era? Lode sia al municipio di Motta S. Lucia (Catanzaro) che da anni ascrive tra le sue priorità non solo riportare in patria il conteso cranio, ma anche risarcire l’indegno danno di immagine creato da Lombroso all’innocente concittadino.
Sulla valorosa battaglia dei neoborbonici calabresi si abbatte ora, come una mannaia, il verdetto della Cassazione: «Nessuno tocchi quel teschio, il suo indirizzo era e resterà a Torino». Perché mai? Perché il sentiero della scienza è costellato di passi falsi, di errori, di scivolate talvolta imbarazzanti, ma senza sbagliare nessuno vedrà mai la luce. In sintesi, da oggi in poi i visitatori del sistema museale torinese potranno sostare davanti a una teca su cui – immaginiamo – sarà scritto a caratteri cubitali «ecco il cranio di un non-brigante su cui fu formulata una non-teoria». E in effetti sarà un’esperienza oltremodo educativa: insegnerà che ben prima dei social e delle fake-news, si potevano affibbiare etichette di ogni genere senza la minima riprova, e magari costruirci sopra dogmi marmorei del tipo «chi è criminale, ce l’ha nel sangue», «la razza condiziona l’intelligenza » oppure «chi è immigrato delinque». A chi lo riterrà un accostamento azzardato, vorrei ricordare che anche le teorie sul primato della razza ariana vantavano a riprova scientifica la dissezione di svariati crani.
Ma di errori, si sa, è piena la storia. Ne paghiamo ancora il prezzo.
La Repubblica, 21 agosto 2019

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