giovedì, gennaio 23, 2014

Leggiamo insieme una bellissima "lettera a Corleone"

di PIPPO ODDO
Non sempre ciò che c’è scritto nella quarta di copertina di un libro corrisponde al vero. Ma nel caso dell’opera di Giuseppa Mistretta (Lettera a Corleone, Casa Editrice Kimeric, 2013, pp. 107, € 13,00) bisogna convenire che si tratta veramente di «un omaggio accorato all’incantevole paese di Corleone, un’ode in cui l’autrice si rivolge in prima persona al caro luogo natio, che in questo modo si trasforma in vero e proprio personaggio». Il tono dialogante con cui si apre – e accompagna la narrazione articolata in 11 capitoli – ne fa un prodotto editoriale di tutto rispetto, originale, davvero gustoso. Il lettore viene trascinato fin dalle prime battute, quasi per incanto, in quel «paese da favola: ridente e solitario, costruito ai piedi delle montagne di “Chiosi “, un altipiano rigoglioso, zona di villeggiatura dei benestanti del paese […]. Le case sciamano verso valle con le terrazze e i balconi aggraziati di ciuffi di gerani o di oleandri in fiore, i cui rami si stendono sul muro, ora pendenti giù come merletti lavorati da mani esperte. Il profumo della citronella si spande per le viuzze strette e lunghe, pulite e silenziose».

Ma, ancor prima di tuffarsi in quest’orgia di colori e d’essenze naturali di cui amavano circondarsi le donne «intente a ricamare e a sferruzzare dietro le tende che le nascondono all’occhio indiscreto dei passanti», il lettore viene avvertito che bisogna smettere di considerare Corleone santuario della mafia e del malaffare, anche perché l’antico nome del paese era «Cuor di Leone». E un vero cuore di leone batte, batteva e continuerà a battere sempre più forte nei cuori dei suoi figli migliori. Tra quelli del passato la Mistretta cita orgogliosamente San Leoluca, San Bernardo da Corleone, il pittore futurista Pippo Rizzo e Placido Rizzotto «sindacalista ucciso perché combatteva per i diritti dei contadini nella distribuzione delle terre secondo la legge nazionale».
Si potrebbero aggiungere a buon diritto e senza tema di smentite anche il noto martire risorgimentale Francesco Bentivegna, fucilato a Mezzojuso il 20 dicembre 1856, e i suoi tre fratelli (Filippo, Giuseppe e Stefano) perseguitati dai Borboni e dai mafiosi – e perché no? – anche il carismatico capo dei Fasci contadini e padre dei Patti di Corleone, Bernardino Verro e, con lui, il suo lontano parente capitano Antonino Verro (medaglia d’argento e martire di Cefalonia, nipote di Stefano Bentivegna) e tanti umili lavoratori che dalla fine dell’Ottocento ai nostri giorni si sono battuti come leoni contro la mafia e il malaffare. Ma proprio per questo bisognerebbe pure ricordare che Corleone è più conosciuto con il nome «Coniglione», che calza a pennello per i corleonesi pavidi e opportunisti, che hanno finito per coprire il malaffare. Rimane però il fatto la popolazione di Corleone è composta in larghissima parte, come scrive Giuseppa Mistretta, di «uomini e donne speciali, gente di cuore, lavoratori instancabili, portatori di antiche tradizioni e di saggezza».
Espressione della parte migliore di questa gente di cui non si sono mai occupati i mass media, l’autrice è vissuta nel paese nativo fino all’età di dieci anni. Poi, nel 1949, suo padre (ferroviere) si è trasferito per ragioni di lavoro a Palermo. Non per questo lei si è dimenticata del luogo dove è esordita alla vita. Al contrario, conserva dei ricordi nitidi della casa dove abitava nel quartiere Sant’Agata e di tutto ciò che c’era dentro: dal suo lettino in ferro battuto al “cantarano”, all’elegante lume a petrolio, al «letto di mamma e papà collocato sotto l’altra metà dell’alcova», ai «lunghi chiodi dove si mettevano appesi i grappoli di pomodoro raccolto un po’ verde, per farlo maturare a poco a poco durante le giornate invernali», alla diceria sui fantasmi che si sarebbero aggirati nella sua casa per tenere in allegria i bambini… ai rituali che bisognava osservare quando li terrorizzavano. «In effetti – si legge a p. 26 – quando avvenne uno dei soliti episodi, la mamma fece come le aveva suggerito la fattucchiera». Si fece, cioè, tre volte il segno della croce con la lingua e recitò un’orazione: «Sette feste e centun annu lu so fruttu factum est, Gesù Cristu in cielu esisti».
Non meno precisi sono i riferimenti alla vita che si svolgeva nel resto del paese. Dalle attività artigianali della lavorazione dell’argilla esercitata dagli “stazzunara”, alle donne che sbarcavano il lunario improvvisandosi fornaie, al rituale della preparazione del pane e dei “cudduruna”, a quello del lavaggio dei panni al fiume, al duro lavoro dei campi, alla recita del Santo Rosario, alle feste religiose, alle allegre scampagnate, alla vendemmia, all’abbigliamento di suo cugino Ciccio: «calzoni di fustagno verde, ricamato dalle toppe qua e là, un fazzoletto bianco con i disegni rossi legato al collo, la coppola in testa e una coperta per mantello». E ancora: le processioni per impetrare la pioggia con gli uomini armati di grosse catene che «colpivano le proprie spalle ora da un lato ora dall’alto, in segno di penitenza», mentre le donne anziane «con la corona del rosario in mano, cantavano a squarciagola mostrando una bocca sdentata, e con gli occhi rivolti al cielo salmodiavano questo ritornello: “Acqua o senza acqua lu pani vulemu e ni l’aviti a dari pi vostra buntà”». Impresso nella mente dell’autrice è rimasto inoltre il ricordo di un incendio che distrusse una pagghialora (fienile) e la gara di solidarietà che si venne a creare (su consiglio e con il concorso attivo dei genitori dell’autrice) nella comunità locale, prima nel vano tentativo di domare l’incendio e poi per ricostruire a spese della collettività quel modesto deposito di paglia e fieno.
Nulla tralascia la Mistretta nella descrizione della vita che si svolgeva nella Corleone della sua infanzia, popolata da umili personaggi realmente esistiti e spesso indicati con il soprannome con cui erano conosciuti in paese. Né dimentica «le donne e le ragazze che andavano a lavorare come domestiche presso le famiglie benestanti dove, spesso, subivano soprusi e abusi sessuali». Né tanto meno le riunioni davanti al davanzale della propria casa, allietate da giochi che profumavano d’innocenza e allegria; o le serate in cui lo zio Turiddu leggeva – tra gli occhi estasiati dei presenti, spesso dispiaciuti della sorte dei vari personaggi – storie d’amore: Paolo e Francesca, Pia dei Tolomei, Genoveffa di Brabante, il Conte Ugolino, l’Orlando furioso, La Gerusalemme liberata.
Per farla breve, il romanzo di Giuseppa Mistretta, oltre ad essere un ottimo prodotto letterario, dà anche un notevole contributo alla riscoperta del mondo rurale che non c’è più e offre spunti di riflessioni interessanti per capire i mutamenti antropologi che sono nel frattempo avvenuti.
Merita perciò di essere letto da quanti si attardano in analisi superficiali della realtà corleonese e soprattutto dalle nuove generazioni che non hanno idea di cosa fosse, nel bene e nel male, negli anni quaranta del secolo scorso la vita nei paesi agricoli dell’entroterra siciliano.
Grazie, Giuseppa, d’aver scritto questo bel libro. Voglio sperare che continui ad attingere allo scrigno della tua memoria per regalarci altre forti emozioni e farci accostare ai valori che hanno orientato le tue scelte di vita e che sono ancora ai nostri giorni spendibili per capire il nostro recente passato e tentare di rendere più armoniosa e umana la società del terzo millennio.
Giuseppe Oddo
Palermo, lì 23 gennaio 2014

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