domenica, aprile 13, 2014

La memoria ritrovata tra Chiusa Sclafani e Marsala

Pippo Oddo e Salvatore Mirabile
di PIPPO ODDO
Il Museo Mirabile delle Tradizioni ed Arti Contadine della Regione Siciliana (inaugurato il 1° luglio 2000 a Marsala) non è la prima istituzione museale di tipo etno-antropologico e nemmeno l’ultima tra quelle cui ho avuto modo di accostarmi io. Ma nel suo genere è sicuramente unico. Me ne sono reso conto già il 22 novembre 2012 quando, oltre ad incontrare il suo appassionato fondatore Salvatore Mirabile e sua figlia avvocato Rossella (presidente dell’Associazione culturale che gestisce il Museo), ho potuto ammirare il vasto patrimonio etnografico che vi è conservato.

La sua originalità si può apprezzare pienamente solo tenendo conto della complessa storia della museografia antropologica in Sicilia. «All’Illuminismo – scriveva nel 1990 Jeanne Pasqualino Vibaek – dobbiamo la nascita dei musei come pubbliche istituzioni […]. I primi veri e propri musei folklorici sono sorti però solo da cento anni, e le raccolte di oggetti appartenenti alla cultura popolare sono di poco anteriori». In Sicilia tutto cominciò quando il sindaco di Palermo, barone Nicolò Turrisi, chiese al grande folclorista Giuseppe Pitrè di studiare «le foggie [sic] del vestire e le maniere di vivere del popolo siciliano» per presentarne un congruo campionario all’Esposizione di Milano del 1881. Il successo della mostra fu talmente grande che lo stesso Pitrè sentì il bisogno di allestire – con il concorso dei suoi corrispondenti sparsi in ogni angolo della Sicilia – una mostra analoga in occasione dell’Esposizione Nazionale Italiana tenuta a Palermo negli anni 1891-92 e inaugurata in pompa magna alla presenza dal re Umberto I, dalla regina e dal presidente del Consiglio dei ministri, il siciliano Antonio Starrabba, marchese di Rudinì. 
Nel 1909 lo stesso materiale che aveva affascinato diverse decine di migliaia di visitatori provenienti da tutta l’Italia e da altri paesi sarebbe assurto, per iniziativa dello stesso Pitrè, al rango di primo museo etnografico siciliano. La sede originaria consisteva in quattro sale all'interno di un vecchio edificio scolastico di via Maqueda, il Collegio dell’Assunta, dove però i reperti non poterono essere ordinati conformemente ai criteri che avrebbe voluto il fondatore. Giuseppe Pitrè passò a miglior vita nel 1916 e per circa vent’anni le collezioni non furono più accessibili al pubblico. Tornarono ad essere visitate negli anni trenta, quando della prestigiosa istituzione fu nominato direttore Giuseppe Cocchiara, che la riorganizzò e successivamente la trasferì in una delle dipendenze della Palazzina Cinese nel Parco della Favorita, messa a disposizione dall’amministrazione comunale. 
È doveroso precisare che il futuro storico del folklore europeo scelse proprio quei locali perché intendeva realizzare un museo “en plain air”. Non a caso nel 1938 sentì il bisogno di affermare solennemente: «Il più grande museo etnografico che esista nel mondo, quello di Stoccolma, colpisce infatti l’anima del visitatore per la sua posizione. Esso sorge in un magnifico parco che domina tutta la città e si compone di molte costruzioni rustiche, dove gli oggetti non hanno né vetrine né bacheche ma trovano il loro posto naturale nel loro particolare ambiente. Lo Skansen – questo è il nome è il nome del museo di Stoccolma – è una superba creazione di Arturo Hazelius». Aggiungeva che la prestigiosa istituzione era divenuta una sorta di modello ispiratore per gli altri musei a cielo aperto scandinavi.
Ma nonostante gli sforzi di Cocchiara e la sua stessa concezione della museografia etnografica intesa come “work in progress”, ancora negli anni cinquanta al museo fondato da Pitrè non se n’era aggiunto nessun altro che gli somigliasse anche lontanamente. Né si registrarono ricadute positive dei progressi che nel frattempo si erano manifestati negli Stati Uniti d’America con la nascita di quelle che gli studiosi di tradizioni popolari d’oltreoceano chiamavano «macchine del tempo». Le nuove frontiere della museografia antropologica in Sicilia si cominciarono ad intravedere vagamente a metà degli anni sessanta, quando il nuovo direttore del Museo Pitrè, Giuseppe Bonomo, prese i primi contatti con l’amministrazione comunale e l’Associazione per la Conservazione delle Tradizioni Popolari nel tentativo di completare l’opera di ampliamento avviata da Cocchiara, morto prematuramente. Il passo successivo si fece nel 1967 con il seminario di studi “Museografia e folklore” organizzato dalla Facoltà di Architettura di concerto con l’Associazione per la conservazione delle Tradizioni Popolari. Ma il Museo Pitrè, per dirla con la Vibaek, «restò pietrificato, rimanendo così il simbolo di tutto quello che i partecipanti avrebbero voluto evitare». Né mi risulta che abbia fatto ulteriori progressi nell’ultimo ventennio. Anzi, è meglio stendere un velo pietoso sull’argomento.
Ad imprimere una prima forte spinta propulsiva all’affermazione della museografia antropologica siciliana fu nel 1971 un privato nato nel 1922 a Canicattini Bagni (Sr), il quale era peraltro intervenuto al Convegno del 1967: Antonino Uccello, cui si deve l’allestimento a proprie spese e l’apertura al pubblico della Casa Museo di Palazzolo Acreide, articolata nei quattro grandi comparti della “Casa di stari” (abitazione nel centro urbano) e della “Casa di massaria” (che riproduce i vari ambienti della masseria iblea), del “maiazzè” (magazzino) e del frantoio. Dopo la morte di Uccello la Casa Museo fu acquistata dalla Regione che affidò la schedatura dei vari reperti al professore Luigi Maria Lombardi Satriani, allora docente di materie antropologiche all’Università di Messina. 
Ma i risultati più importanti si sarebbero visti nell’Isola dopo il 26 giugno 1973, quando in Emilia, nella frazione di San Marino di Bentivoglio, l’Istituzione Villa Smeraldi (costituita dalla Provincia di Bologna con il sostegno dei comuni di Bologna, Bentivoglio e Castel Maggiore) inaugurò la mostra “Materiali per un museo”, i cui reperti avrebbero costituito in seguito il grosso del ben noto “Museo della Civiltà Contadina” della pianura emiliana, aperto solennemente al pubblico nel 1979 e destinato ad accreditarsi subito come una delle prime e più importanti collezioni italiane di vecchi oggetti legati al mondo del lavoro e della vita rurale. Per farla breve, «i materiali (reperti e strumenti, foto e documenti d'archivio, testi) attestano la vita nelle campagne della pianura bolognese fino alla metà del Novecento, indagata in un'ottica socioeconomica e antropologica. Il Museo promuove inoltre – in collaborazione con l'Università, i Comuni e le associazioni culturali del territorio – iniziative divulgative e didattiche per le scuole e il pubblico e importanti progetti di studio e ricerca sulla civiltà rurale del territorio, con particolare attenzione per la storia economica e sociale e il dialetto».
Tornando alla Sicilia, nel 1975 (nel clima di grande euforia suscitato dalla legge n. 5/75 che istituiva il ministero dei Beni Culturali ed elevava i reperti etno-antropologici alla dignità di beni culturali) veniva inaugurato a Palermo del Museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino” al cui allestimento contribuirono alcuni tra i più autorevoli componenti dell’Istituto di Scienze Antropologiche e geografiche dell’Università di Palermo. E già nell’estate 1976, facendo tesoro dell’esperienza maturata a San Marino di Bentivoglio, Salvatore D’Onofrio organizzava a Caronia – con la collaborazione di alcuni studenti e pastori – una mostra del lavoro contadino nei Nebrodi. Nella primavera 1977 la mostra di Caronia fu ospitata nei locali palermitani del Museo internazionale delle marionette. Il successo fu superiore alle più rosee previsioni. Basti ricordare che la mostra era stata programmata per 15 giorni e rimase aperta per oltre due mesi e fu visitata da circa 10.000 persone.
La tappa successiva fu la mostra allestita nel novembre 1977 da Antonino Cusumano a Campobello di Mazara con i reperti raccolti dai professori e gli alunni della locale scuola media. Mostra che portò alla costituzione del Museo della vita e del lavoro contadino di Campobello di Mazara, inaugurato nel mese di aprile 1978. Nello stesso periodo nacque il Museo ibleo delle arti e tradizioni popolari “S. A. Guastella” (ospitato nel prestigioso palazzo dei Mercedari di Modica), che ricostruisce diversi ambienti di lavoro tradizionali. Va ascritto a merito di questa istituzione museale il recupero di varie botteghe artigiane con tutto l’arredo e l’attrezzatura tecnica. 
Ma già nel gennaio dello stesso anno la Cattedra di Antropologia Culturale dell’Università di Palermo aveva organizzato il I Congresso internazionale di studi antropologici i cui atti (frutto di ricerche poliennali) costituiscono tuttora un monumentale contributo di analisi e proposte di valorizzazione dei segni del lavoro e di ricognizione degli studi di cultura materiale a livello planetario. E intanto, in attuazione dell’art. 18 della legge n. 37/78 sull’occupazione giovanile, la Regione Siciliana varava una serie di progetti mirati al censimento sistematico (con la consulenza dell’Istituto di Scienze Antropologiche e Geografiche dell’Università di Palermo) degli strumenti di lavoro raccolti in diversi comuni della Sicilia occidentale che saranno di lì a poco oggetto di mostre prima temporanee e poi permanenti ad Alia, Castellana Sicula, Palazzo Adriano, Polizzi Generosa, Vallelunga, Palma di Montechiaro, Marineo, Villalba, Caltavuturo, Petralia Sottana, Castellammare del Golfo, San Giuseppe Jato, Santo Stefano di Quisquina, Ustica.
Nel 1980 la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo istituiva un Servizio Museografico «con il compito di servire da centro di studi museologici, centro di documentazione e anche servizio di consulenza scientifica e coordinamento per le iniziative locali». In questo contesto, nello stesso 1980 fu aperto ai visitatori, per iniziativa dell’amministrazione comunale di Gibellina (che si assunse anche l’onere della gestione), il Museo etno-antropologico della Valle del Belice, articolato nei seguenti cicli produttivi: grano e pane; vite e vino; costruzione delle botti; pastorizia e produzione formaggi; lino, filatura e tessitura; apicoltura. Subito dopo a Gibellina furono avviate delle ricerche sui mestieri scomparsi del “issaru” (gessaio), del “vardaru (sellaio) e del “conzapeddi” (conciapelle). Prendendo a modello i criteri adottati dal museo di Gibellina sono stati aperti al pubblico anche il Museo dei Nebrodi di Sant’Agata di Militello, il Museo del bosco di Caronia, il Museo etnoantropologico di Biacquino, il Museo del carretto di Terrasini, il Museo delle saline di Nubbia (Trapani), il Museo etnoantropologico di Sambuca di Sicilia. Storia diversa è quella del Museo Etnografico del Corleonese, che è stato aperto al pubblico nel 2000 e quattro anni dopo dotato di un interessante catalogo a cura del professore Filippo Salvatore Oliveri.
Frattanto Francesco Carbone fondava a Godrano il Centro Studi, Ricerca e Documentazione “Godranopoli” attrezzandolo a proprie spese di spazi per incontri, dibattiti, congressi, etc., ma anche di un museo etno-antropologico, una pinacoteca d’arte moderna e contemporanea, una biblioteca di storia e cultura siciliana, un periodico (Busambra), una rassegna dei mestieri e del riciclaggio degli attrezzi di lavoro e degli oggetti di uso domestico. A calamitare la maggiore attenzione dei visitatori è stato, fin dal 9 settembre 1983 (quando il cancello del Centro Studi fu aperto al pubblico) il Museo nel quale, a detta dello stesso fondatore, trovano applicazione «le teorie della comunicazione formulate da Marshal McLuhan (quella fredda capace di maggiore partecipazione recettiva) nonché la distribuzione degli spazi prossemici rilevati da Edward T. Hall». 
Carbone si congedò dal mondo nel 1999 e con lui scomparvero quasi tutte le attività di Godranopoli. Lo stesso museo oramai si apre solo di rado per ricevere, dietro appuntamento, qualche scolaresca. Ma la lezione e la tensione ideale del fondatore continuano nondimeno a vivere nella vasta area di Rocca Busambra con la pubblicazione del periodico “Nuova Busambra”, l’organizzazione di mostre di vario genere e la costituzione di gruppi d’impegno culturale presenti a Godrano, Mezzojuso, Marineo e Villafrati. Un discorso a parte meriterebbe l’Associazione "Museo del Grano e della Civiltà contadina siciliana" di Campofelice di Fitalia, fondata dall’architetto Domenico Gambino. Il quale è ormai da diversi anni impegnato in uno sforzo ricognitivo, finanziario e persino fisico volto alla costituzione di un museo rappresentativo della cerealicoltura dell’Isola, che spera di aprire ai visitatori tra pochi mesi. Ma, siccome lo spazio è tiranno, mi limito ad osservare che due anni fa Gambino, animato dal proposito di far tesoro delle iniziative di successo, a metà del 2013 ha voluto visitare assieme a me il Museo fondato da Mirabile a Marsala. E ne è rimasto positivamente impressionato al punto da ripromettersi di imitarne alcuni aspetti.
Né poteva essere diversamente. Salvatore Mirabile (intellettuale poliedrico e soprattutto poeta come Antonino Uccello) è nato a Chiusa Sclafani nel 1951, ossia due anni prima dell’architetto Gambino, il cui orizzonte culturale è sempre stato influenzato dal paesaggio agrario di Campofelice di Fitalia, a prescindere dalla sua residenza legale. L’uno e l’altro hanno fatto appena in tempo a testimoniare della più grande trasformazione socio-economica e culturale di tutti i tempi. All’epoca della loro infanzia la Sicilia interna (di cui facevano parte Chiusa Sclafani e Campofelice di Fitalia) cominciava a subire gli effetti del brusco passaggio dalla civiltà contadina d’impronta feudale alle lusinghe neocapitalistiche, che diedero la stura al più assurdo etnocidio culturale della storia dell’Isola. Era il tempo in cui i contadini deponevano la zappa per andare ad indossare altrove la tuta blu. Il periodo in cui la nuova ricchezza inebriava e accecava la povera gente fino al punto di vergognarsi del dialetto, svendere capolavori di creatività contadina, oggetti di uso domestico e attrezzi agricoli prodotti dalle locali botteghe artigiane. L’epoca folle e maledetta in cui i popolani meridionali dimenticavano le preghiere e le leggende tramandate dalle generazioni passate, il periodo in cui nelle piazze e nei teatri dei comuni rurali di Sicilia cessavano gli spettacoli dell’opera dei pupi.
Era pertanto prevedibile che, approdando in città, un poeta come Totò Mirabile (così si fa chiamare dagli amici) cercasse di raccogliere ogni cosa che potesse ricordagli gli anni passati nella sua Chiusa Sclafani. Quello che però lui stesso non poteva prevedere è che la sua frenesia di recuperare i reperti del passato agropastorale del paese natio, dopo aver messo le radici nella città contadina di Marsala, si sarebbe evoluta in ansia dell’attimo sfuggente anche nella terra di accoglienza (che nel frattempo gli aveva dato la moglie e due figlie). In buona sostanza Totò si mise a collezionare anche reperti del lavoro e della vita quotidiana di Marsala e dintorni. Il suo museo acquisì per conseguenza dei tratti culturali unici e irripetibili. Ma la più grossa originalità dell’allestimento del Museo delle Tradizioni ed Arti Contadine di Marsala discende anche dal modo in cui l’aveva ideato il suo fondatore, che in campagna c’era stato soltanto per prendere un po’ d’aria fresca, e le reliquie del lavoro contadino le aveva viste quasi esclusivamente dentro le abitazioni del centro urbano e talora anche ammassati alla rinfusa vicino agli oggetti di uso domestico. 
Sta di fatto che il Museo è strutturato in un percorso mediante il quale si attraversano diverse zone tematiche (della casa, del magazzino, della cantina, dell’olio, del pane, del vino, dei giochi di latta, dei giochi fanciulleschi, del ciclo della vita, dei mestieri). La zona delle collezioni e la zona didattica si trovano all’interno del salone conferenze. È appena il caso di aggiungere che, a differenza di altre simili istituzioni pubbliche e private che nel frattempo hanno chiuso i battenti o stanno uscendo di scena (a cominciare dal Museo di Gibellina, cui pure il Servizio museografico dell’Università di Palermo aveva conferito la dignità di centro pilota della museografia antropologica nell’Isola), quella di Marsala continua a crescere di prestigio grazie alle iniziative collaterali periodicamente promosse da Rossella e Totò Mirabile, ai quali non manca per certo la consapevolezza che la conservazione delle testimonianze del passato aiuta a comprendere la realtà in cui viviamo e la direzione verso cui si muove la società del terzo millennio.
Un solo rimpianto credo che abbiano i Mirabile: gli sforzi della loro famiglia non hanno finora trovato nessuna valida sponda o riscontro positivo nella pubblica amministrazione. Il Comune di Marsala e ciò che resta della vecchia Azienda provinciale per il Turismo hanno sottovalutato il ruolo cui potrebbe assolvere il Museo Mirabile delle Tradizioni ed Arti Contadine ai fini della promozione turistica nell’hinterland marsalese e in tutto il Trapanese. La Regione Siciliana e di conseguenza anche le Università hanno congelato il progetto di istituire l’annunciato museo etnologico regionale, ossia «il Museo della Civiltà contadina siciliana, eventualmente con due sezioni, una a Palermo e una nella parte orientale dell’Isola», che nell’ormai lontano 1978 sembrava d’imminente realizzazione. Non per questo Rossella e Totò hanno rinunciato a sognare o smesso d’investire denaro e fatica per il rilancio del loro museo. Grazie Rossella, grazie anche a te, Totò, che hai voluto immortalare i segni della tua Chiusa Sclafani a Marsala.
Giuseppe Oddo
Palermo lì 5 aprile 2014
PS: La foto è stata scattata da Rossella Mirabile il 22 novembre 2012

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