domenica, aprile 21, 2013

Intervista a Fabrizio Barca: «Errore chiedere a Napolitano»

Fabrizio Barca
Di Andrea Carugati
21 aprile 2013
Fabrizio Barca, ministro uscente della Coesione territoriale e neo iscritto al Pd, ieri è stato protagonista della giornata che ha portato alla rielezione di Giorgio Napolitano al Quirinale. Con un tweet in cui definiva «incomprensibile» la scelta del Pd di non appoggiare Stefano Rodotà e di non proporre Emma Bonino.
Non le è parso il suo un intervento tardivo, quando ormai i giochi erano fatti?
«Ho ritenuto di scegliere una finestra temporale molto stretta dopo lunga meditazione, per evitare che un ministro di un governo di emergenza potesse in alcun modo interferire nelle decisioni. Al contempo, ho voluto parlare prima di sapere se la straordinarie e inedite pressioni sul presidente Napolitano affinché facesse ciò che egli aveva chiesto che non avvenisse, avessero una risposta. Un attimo prima sarebbe stata un’interferenza, un attimo dopo un giudizio. Ma volevo dire che il Pd aveva in mano tre carte straordinarie, Prodi, Bonino e Rodotà, per evitare di dover chiedere questo passo a Napolitano. La generosità del presidente nulla toglie alla gravità della richiesta che gli è stata fatta. E mi chiedo: perché il Pd è arrivato a questo?».


In passato, sostengono alcuni osservatori, le votazioni per il Colle si sono trascinate molto più a lungo, anche in presenza di forti tensioni sociali. Forse non c’era tutta questa fretta di chiudere alla sesta votazione...

«Sono perfettamente d’accordo. Il Pd poteva ben presidiare altre votazioni, come è avvenuto anche in momenti ben più drammatici di questo. Ma allora il partito di maggioranza relativa, la Dc, era tenuto insieme da convincimenti e da una volontà così profonda di stare insieme da riassorbire le tensioni e i risentimenti. Evidentemente oggi quella colla non viene avvertita dal gruppo dirigente». 

Dunque il Pd avrebbe dovuto muoversi diversamente?

«Constato che il gruppo dirigente ha ritenuto di non poter reggere oltre. Eppure Prodi, Rodotà e Bonino rappresentano le tre grandi culture del Pd, quella liberale, quella socialista e quella cristiano sociale. Perché non si trovata un’intesa su uno di questi nomi? Evidentemente hanno prevalso i personalismi, come si è visto nell’irraccontabile voto su Prodi». 
Su Rodotà il Pd ha ritenuto di non poter essere subalterno ai grillini. Condivide? 

«Trovo politicamente straordinario che un movimento di opposizione come il 5 stelle si sia ritrovato su tre figure importantissime dell’area democratica. E non si è incassato su uno di questi tre nomi il risultato? In qualunque Paese davanti a una situazione analoga i dirigenti avrebbero deciso di convergere a razzo mettendo in difficoltà l’avversario politico». 

Cosa succederà adesso al Pd? Vede rischi di scissione? 

«Cercherei di ripartire in positivo. Il Pd ha le carte in regola per essere ancora un punto di riferimento, le sue culture fondative sono forti e apprezzate dal Paese e anche da un movimento di opposizione come i 5 stelle. Il Pd può ripartire da qui, ha le carte dentro di sé, nella convergenza delle sue grandi culture, ogni divisione sarebbe insensata». 

Bersani, dopo aver tentato il dialogo con i grillini per settimane, ha dunque sbagliato nel non credere fino in fondo a quella ipotesi? 

«Sarebbe davvero ingiusto, auto-assolutorio, mettere in carico a Bersani le responsabilità che sono di un vasto gruppo dirigente che non ha saputo essere orgoglioso e forte di questa triade di nomi». 

Che critica muove invece ai Cinque stelle? Parlo delle grida di Grillo al golpe. 

«Certamente sono inquietanti. Ma quel movimento ha intercettato un ribellismo e una voglia di rottura di cui ora amplifica la voce. Non dobbiamo stupirci». 

Insisto: che rischi corre ora il Pd? 

«Bisogna essere consapevoli dei rischi per evitarli. Una separazione sarebbe insensata, una iattura». 

Il Pd sopravviverà al varo di un governo di larghe intese? 

«Il partito deve trovare la forza di separare una soluzione di governo, qualunque essa sia, dalla riflessione sulla propria configurazione, sul gruppo dirigente e sulla sua linea di medio-termine». 

Oggi Vendola con il suo no alla larghe intese ha lanciato la costituente di una nuova forza di sinistra. 

«Nelle prossime settimane dovremo avere un minimo di leggerezza, fare ogni sforzo per non sovrapporre gli eventi correnti alla prospettiva di medio termine. È possibile che si abbiano voti differenziati, che non dovranno per forza influire con l’assetto futuro dei partiti. In fondo Sel e Pd si sono già divisi durante il governo Monti, e poi si sono ritrovati. Ora il punto è maturare un progetto per l’Italia per i prossimi 10-15 anni, un ragionamento che deve restare separato dalle vicende di un possibile nuovo governo di emergenza nazionale. Il Pd deve curare se stesso, sarebbe suicida far dipendere il nostro destino e le prospettive di ricostruzione dalle vicende dei prossimi giorni». 
Sel però lancia una nuova sinistra. 

«Io sono iscritto al Pd e non cambio idea, anche perché non mi ha sorpreso la sbandata del gruppo dirigente. Anzi, in quello che è successo vedo con amarezza la conferma di alcuni dei sintomi che ho evidenziato nel mio documento: un partito che non discute dei propri convincimenti, che non ha un legame profondo e quotidiano con il territorio, dove i nomi sono slegati dai disegni e c’è un distacco rispetto ai giovani». 

Ha visto in queste ore uno scontro generazionale nel Pd? 

«È come se i giovani e gli anziani non capiscano più quelli della generazione di mezzo, e cioè quelli che hanno il maggiore potere e sono invischiati in meccanismi rancorosi. Vedo una fortissima distanza tra tanti ottimi e giovani amministratori locali e il gruppo dirigente nazionale» 

Come valuta l’atteggiamento di Renzi sulla partita Quirinale, l’immediata archiviazione del nome di Prodi? 

«Una reazione nervosa. Spero che la mia piccola adesione al Pd non abbia contribuito a questo, perché abbiamo il dovere di essere molto sereni. Nei prossimi giorni una serie di giovani sindaci e governatori potrà dare un segnale forte sulla vitalità del Pd. Nel breve termine 4-5 di questi amministratori, che appartengono a tutte le culture del Pd, saranno determinanti nel gestire la fase di transizione, trasmettendo un senso di sicurezza agli iscritti». 

E in una prospettiva di lungo termine? 

«Serve un confronto forte sui principi che ci spingono a stare insieme, sull’Italia che vogliamo per i prossimi 10 anni, sulle politiche per arrivarci e sulla forma partito. Le agende non si improvvisano».



Ci sarà una sua candidatura al congresso? 

«Vorrei dare un contributo da iscritto girando il Paese, la reazione più importante al mio documento sono stati gli inviti da decine di circoli per discutere. Nei grandi partiti del passato non c’era questa connessione tra l’avvio di una riflessione e l’ambizione alla guida del partito. E non ci deve essere neppure oggi». 

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