venerdì, settembre 23, 2016

Pertini, il nonno che volle una vita spericolata

GIANCARLO DE CATALDO
In occasione dei centoventi anni dalla nascita riemergono alcune lettere inedite del più popolare inquilino del Quirinale scritte durante il confino inflitto dal fascismo a Ponza e a Ventotene
L’immagine che è passata alla Storia, scolpita nel cuore di un’intera generazione di italiani: l’anziano signore che scatta in piedi al gol di Tardelli nella finale del mundial spagnolo dell’82, esultando come un ragazzino, e rivolto a re Juan Carlos, ai suoi vicini, all’universo mondo che segue in diretta l’evento, agita l’indice e assicura: «Non ci prendono più, non ci prendono più». Quella sera nelle piazze d’Italia si ballava, si cantava, ci si tuffava nelle fontane. Ci si sentiva sfrenatamente italiani.
E l’anziano signore, col suo trasporto passionale che rompeva ogni regola di etichetta, era, a un tempo, il simbolo e il garante di questo spirito elettrico che ci pervadeva.

Pertini: il nonno di tutti gli italiani. Di Sandro Pertini ricorrono, domenica prossima, i centoventi anni dalla nascita e per chi conosceva la sua storia, l’approdo alla figura del vecchino rassicurante aveva qualcosa di paradossale, se non di riduttivo. Si portava appresso un sentore di melassa, un “volemose bene” che non aveva niente di pertiniano.
Ma il fatto è che non c’era un solo Pertini, quella sera, nella tribuna d’onore. C’erano tutti i Sandro Pertini, con le loro vite dure, spericolate, estreme. C’era il pacifista divenuto suo malgado eroe di guerra. C’era il giovane avvocato socialista dalla lingua tagliente — “u brichettu”, lo chiamavano, il cerino, per quanto facilmente s’accendeva — che rompe con il fratello in camicia nera e poi ne piange la morte. C’era l’organizzatore, insieme ad Adriano Olivetti, della fuga di Turati in Corsica. C’era l’esule, imbianchino e comparsa del cinema, che si vende una masseria di famiglia per impiantare la prima radio libera antifascista d’Europa, costantemente sorvegliato da spie travestite da fuoriusciti. C’era il condannato dal Tribunale Speciale che accoglie la sentenza al grido di “viva il Socialismo!”, si fa quattordici anni fra ergastolo e confino con la pena di volta in volta rinnovata per ordine personale del Duce,manda a quel paese la madre che ha osato chiedere la grazia, e anni dopo ammonirà i giovani magistrati: non credetevi mai esseri superiori perché investiti del potere di giudicare, ve lo dice un condannato a morte che ha imparato molto più dai suoi compagni di pena che da chiunque altro. C’era il capo militare della Resistenza, che contribuì a condannare a morte Mussolini. C’era il partigiano che aveva coltivato l’idea di una mattanza di gerarchi fascisti e nazisti in occasione di un raduno al cinema Adriano di Roma: chiuderli dentro e farli fuori in un colpo solo. Come nei “Bastardi senza gloria” di Quentin Tarantino. Il partigiano che nella lotta durissima e intransigente contro la dittatura rinverdiva la tradizione mazziniana del “fatto del pugnale”, convinto che l’abbattimento del tiranno fosse il primo passo verso la libertà. Regicida, semmai, non certo terrorista.
C’era il detenuto del braccio della morte di Regina Coeli che evade grazie alla rete clandestina socialista beffando le SS: mentre quelli li cercavano, lui e Saragat brindavano alla fuga dall’appartamento del dottor Monaco, il medico del carcere, partigiano, come sua moglie Marcella. C’era il custode inflessibile della memoria resistenziale, l’autore dell’incendiario discorso di Genova contro il congresso dell’Msi. Ci furono scontri, e morti. Pertini fu accusato di aver aizzato le masse. Rivendicò, senza scomporsi. E oggi molti storici ritengono che quel discorso abbia di fatto inaugurato la stagione del centro-sinistra.
C’era il Presidente della Camera che, di fronte allo scandalo dei ministri pagati dai petrolieri per ottenere leggi di favore, esorta piangendo i giovani “pretori d’assalto” ad andare avanti senza guardare in faccia a nessu- no, socialisti inclusi. C’era il combattente che, nei giorni del sequestro Moro, intima a chi gli è vicino: se dovessero mai prendere me, non trattate. In nessun caso.
Erano tutti lì al Santiago Bernabeu di Madrid, quella sera. Il nonno era tutti loro, e tutti loro erano il nonno. Erano tutti lì a esultare, i tanti Pertini, alla fine di tutte quelle esistenze apparentemente inconciliabili. E noi, confusamente, noi lo sentivamo.
Sentivamo il nonno, ma anche il partigiano, il lottatore, l’idealista, l’incorruttibile, il pacifista che sogna di svuotare gli arsenali e riempire i granai e persino il soldato che riconosce l’ineluttabilità della violenza. Ci riconoscevamo in tutti loro, e il nonno non era che l’ultima sintesi.
Eravamo reduci dalla terribile stagione del terrorismo, Pertini, tutti i Pertini, ci avevano presi per mano quando eravamo a un passo dalla dissoluzione, ci avevano trascinati fuori dall’oscura “notte della Repubblica” e ci avevano accompagnati verso il futuro.
Non sapevamo esattamente che cosa ci attendeva. Ma intanto ci fidavamo.

LA REPUBBLICA, 23 SETTEMBRE 2016

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