mercoledì, luglio 23, 2014

Sulle divisioni dell’antimafia



di Umberto Santino
Che nel movimento antimafia ci siano delle divisioni non è una novità, ma non penso che servano a molto reazioni emotive, come le lamentele di chi non perde occasione per proclamare che “contro la mafia bisogna essere tutti uniti” o l’invocazione della purezza da salvaguardare da chi approfitta degli anniversari delle vittime più illustri per esibire un’antimafia di facciata. Bisognerebbe trovare la capacità di riflettere su quel che è accaduto negli ultimi anni e continua ad accadere, ma francamente non so se questa capacità, o almeno questa volontà, ci sia. Nell’antimafia si ritrovano soggetti diversi:associazioni, fondazioni, centri studio, comitati più o meno formalizzati, alcuni lautamente finanziati con fondi pubblici (e qui si pone il problema della discrezionalità con cui vengono assegnati, ma su questo tema non pare che si voglia fare un ragionamento serio e conseguente), si ritrovano familiari di vittime, alcune notissime, altre ignorate o sconosciute, e già questa composizione dovrebbe essere oggetto di riflessione.
Sono storie, culture, sensibilità, esperienze diverse, e non è facile farle convivere se non si condivide una regola fondamentale, che pare ovvia ma in realtà non lo è: fare insieme le cose su cui si è d’accordo, aprire un confronto sulle altre su cui un accordo non c’è. Ma questa volontà di convivenza c’è o prevale una prassi diversa, per cui chi ha più visibilità, più risorse, più potere, tende a cancellare gli altri o a relegarli a tifoserie e a comparse di uno spettacolo dominato dai protagonisti? Chi scrive ha vissuto esperienze unitarie, dapprima con il Coordinamento antimafia, nato da una proposta del Centro Impastato nel 1984, dopo la guerra di mafia e i delitti Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa e Chinnici; successivamente con Palermo anno uno nei primi anni ’90, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, e in Libera, nata nel 1995 con il proposito di costruire un movimento organizzato a livello nazionale. Esperienze significative, ma non è un caso che le prime due siano naufragate e che l’ultima abbia avuto problemi che non sono stati affrontati e risolti, ma espunti con provvedimenti “amministrativi” come le esclusioni o i dimissionamenti forzati (è quello che è accaduto con l’allontanamento di dirigenti nazionali, senza nessuna discussione, e la cancellazione dell’intero gruppo palermitano).
Ci sono poi diversità di analisi e di pratiche, di idee di mafia e antimafia, più o meno esplicitate. E le diversità sono diventate contrapposizioni con le vicende processuali successive alle stragi di Capaci e di via D’Amelio e in particolare con il processo in corso sulla trattativa Stato-mafia, che chiama in causa rappresentanti delle istituzioni. Le istituzioni vanno rispettate in ogni caso, chiunque le rappresenti, o il modo migliore per rispettarle è denunciare complicità, amnesie, silenzi a tutti livelli, anche a quelli più alti? Come si vede sono domande che vanno al cuore della storia del nostro Paese, in cui la violenza mafiosa e stragista si è coniugata con le dinamiche del potere. Il problema è come si gestisce un contrasto che non è certo una banale diversità di vedute. Un conto è sostenere un confronto, con le asprezze che non possono non esserci, dato che non è il freddo misurarsi tra “scuole di pensiero”, ma hanno un peso decisivo vissuti, tragedie personali e familiari, ferite non rimarginate; un altro è farne una guerra di religione, in cui si impartiscono assoluzioni o scomuniche. In questo clima possono convivere le schermaglie tra Salvatore Borsellino e la signora Falcone e l’abbraccio a Massimo Ciancimino, con le agende rosse inalberate come un vangelo civile o il libretto di Mao (anche la fede politica può essere una religione).
In anni non lontani per Falcone e per Borsellino si organizzavano manifestazioni unitarie e si svolgevano dibattiti con voci diverse. Davanti all’albero Falcone Antonella Azoti ha ritrovato la forza per ricordare il padre ucciso nel 1946 e il mio “Ricordati di ricordare”, che comincia con Emanuele Notarbartolo e i Fasci siciliani, è stato scritto per il 19 luglio del 1994. Negli ultimi anni le manifestazioni sono state monopolizzate da alcune associazioni e l’iniziativa di riflessione più frequentata, con gli interventi dei magistrati impegnati in inchieste di mafia, e con il concorso di comitati e cittadini antimafia, è stata organizzata da una rivista diretta da un personaggio che dice di avere le stimmate e di aver ricevuto dalla Madonna la mission di lottare la mafia, anticristo del nostro tempo. Bisognerebbe evitare queste commistioni, l’ho detto e scritto più volte, ma è come gettare pietre in uno stagno.
Il 19 luglio scorso i fratelli di Paolo Borsellino hanno chiesto che delle vicende legate alle stragi si occupi la Commissione parlamentare antimafia. La presidente della Commissione ha dichiarato che c’è il rischio di interferire con i procedimenti in corso. Un precedente smentisce questa preoccupazione. Per indagare sul depistaggio delle indagini sul delitto Impastato, nel 1998, con due processi in corso contro i mandanti dell’assassinio, si è costituito presso la Commissione antimafia un comitato che ha prodotto una relazione sulle responsabilità di uomini della magistratura e delle forze dell’ordine. Finora quella relazione, pubblicata nel volume Peppino Impastato: anatomia di un depistaggio, è un caso unico. Se si vuole, si può riprendere quel filo e impegnarsi per cercare di accertare le responsabilità a tutti i livelli, a prescindere dai risultati che potranno conseguirsi sul piano giudiziario.


Pubblicato su Repubblica Palermo del 22 luglio 2014, con il titolo: Le guerre di religione non giovano all’antimafia.

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