giovedì, luglio 22, 2010

Depistaggi, collusioni: così cadono i miti dell'Antimafia

di Nicola Biondo
Ancora una volta divisioni, sospetti, accuse. All’indomani della audizione dei vertici della procura nissena che indaga sulla strage Borsellino alla Commissione antimafia, sembra non placarsi la polemica sulle frasi riportate dalla stampa e attribuite al procuratore Sergio Lari e al suo aggiunto Nico Gozzo. «Siamo vicini ad una verità clamorosa su via D’Amelio, la politica non reggerà questa verità».
Così si sarebbero espressi i magistrati. E giù polemiche. «Queste sono minacce, avvertimenti alla politica, bisogna difendersi da certi Pm». Questo il campionario dei commenti: peccato che la notizia è falsa, quelle frasi Lari e Gozzo non le hanno mai dette, né ai giornalisti, né all’Antimafia. Un copione tipico che si materializza ogni qualvolta le indagini antimafia salgono di livello: oscurare le verità delle inchieste, spostare altrove l’attenzione. I dati di fondo che emergono dalle nuove inchieste sono altri e fanno paura. Perché disegnano altre responsabilità. Le nuove indagini fanno sbiadire i volti dei macellai mafiosi di Capaci e di via D’Amelio, di via dei Georgofili e di via Palestro, teatro degli eccidi del luglio del ‘93 a Firenze e Milano. Prendono consistenza altri ambienti, altre facce, altri moventi: uomini dei servizi segreti e delle forze dell’ordine. Vanno in pezzi tanti miti dell’antimafia, nomi di investigatori che hanno incarnato per anni la lotta antimafia, le cui azioni oggi vengono lette sotto tutt’altra luce dai magistrati. L’inchiesta sulla strage di via D’Amelio disegna un depistaggio, voluto da un gruppo di eccellenza di poliziotti guidati da uno dei migliori sbirri palermitani, Arnaldo La Barbera. Il suo nucleo – che tanti successi ha mietuto contro la mafia - avrebbe innventato un falso pentito, un balordo di borgata: Enzo Scarantino, che ha propalato una falsa verità. Creduta e avallata da altri investigatori come il numero tre del sisde Bruno Contrada, oggi condannato definitivamente per collusione con Cosa nostra il cui nome compare in quasi tutti i misteri siciliani. Oggi uno dei suoi collaboratori è sospettato di aver preso parte alla fase preparatoria della strage del 19 luglio. La versione di Scarantino convinceva pienamente anche due alti magistrati: l’allora capo della procura nissena Giovanni Tinebra, poi promosso nel 2001 dal governo Berlusconi a capo dell’amministrazione penitenziaria e il Pm Anna Maria Palma, oggi consigliere del Presidente del Senato. Altro mito dell’antimafia a cadere è quello del Ros dei carabinieri, quello di Mario Mori e del suo superiore Antonio Subranni. Mori, dopo essere stato processato e assolto per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, oggi è sotto processo per un'altra omissione, non aver arrestato Provenzano nel corso di un summit di mafia nell’ottobre del 1995. Il generale, che attualmente si occupa delle infiltrazioni mafiose all’Expo di Milano, è anche indagato per la trattativa tra stato e mafia, insieme ad altri ufficiali.
Mentre Subranni è stato citato dalla vedova Borsellino che ha riportato ai magistrati un giudizio non proprio lusinghiero del marito sull’alto ufficiale. E cadono i miti di alcuni politici che ricordano con diciassette anni di ritardo particolari importanti proprio sulla trattativa e sugli incontri dei carabinieri con Vito Ciancimino. Una trattativa che secondo alcuni sarebbe partita molto prima delle stragi. È finito di nuovo sotto i riflettori delle inchieste un altro importante ufficio, oggi soppresso, l’Alto Commissariato antimafia all’interno del quale si sarebbero mossi agenti segreti e strategie raffinate per colpire le inchieste di Giovanni Falcone e i cui responsabili sarebbero stati in contatto fin dalla metà degli anni ‘80 con don Vito. È inutile girarci intorno: i magistrati indagano su un golpe, avvenuto tra il ‘92 e il ‘93, di cui le stragi sono l’iceberg visibile. Il puzzle spaventoso delle stragi mafiose, del malaffare, delle trattative, dei patti e dei ricatti era ben chiaro a Paolo Borsellino: «La mafia e lo stato – diceva il giudice - aagiscono sullo stesso territorio, o convivono o si fanno la guerra».
L’Unità, 22 luglio 2010

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