domenica, novembre 13, 2016

Quando Bob Dylan tradì il folk

Bob Dylan
CLINTON HEYLIN
Il 4 febbraio del 1966 iniziò il tour che “cambiò il rock’n’roll per sempre” Oggi potete riascoltarlo e soprattutto “rileggerlo” nelle testimonianze di allora
COME MOLTISSIMI FAN TROPPO MALEDETTAMENTE GIOVANI per aver potuto vivere i concerti del 1966 in tempo reale, il mio primo contatto con il sound di Dylan & the Hawks di allora fu un album semiclandestino chiamato, a seconda dei casi, In 1966 There Was, The Royal Albert Hall Concert o Looking Back. Quella registrazione di un concerto a Manchester (come si è scoperto poi), pubblicata nella sua interezza nel 1998 come quarta uscita delle “Bootleg Series” ufficiali della Sony, non era semplicemente incendiaria, sconfinava nell’anarchia. Gruppi di fan contrapposti vennero quasi alle mani in platea, al manifestarsi della violenza della musica. Uno studente di sociologia, di nome Keith Butler, quasi stramazzò per lo choc prima di tirar fuori un’unica parola “Giuda!”, la sua profetica risposta alla domanda a cui Dylan aveva preparato il terreno tutta la serata: “How does it feel? Che ve ne sembraaa?”. Uscendo infuriato dalla sala per assaporare l’aria primaverile, Butler si ritrovò un microfono sotto il naso e una telecamera portatile puntata in faccia. E di nuovo quella domanda: che le è sembrato? «È un traditore. Vuole una sparatoria. Striscia nelle fogne cercando di guadagnarci su».

Era così in tutti i concerti? Dopo tutto erano passati già dieci mesi (e tanta carta di giornale da distruggere un bosco) da quando Dylan aveva lanciato le sue nuove sonorità rock, e a un festival di musica folk nel Rhode Island per di più. Di sicuro la notizia doveva essere arrivata a Manchester. Di certo era arrivata nella redazione londinese del Melody Maker. Un articolo sul numero del 30 aprile 1966 del celeberrimo settimanale musicale era intitolato: «Dylan si porta dietro un suo gruppo: gli farà da spalla per metà di ogni concerto ». Chiaro, no? Non per tutti.
Le reazioni virulente di quella serata spinsero una giovane Erica Davies a scrivere una lettera al Melody Maker, la stessa settimana del concerto di Manchester, «per protestare contro l’atteggiamento di una parte del pubblico di Dylan. Gridare “traditore” e andarsene perché si è presentato in scena con una chitarra elettrica è infantile. Queste persone evidentemente girano con i tappi nelle orecchie, perché negli ultimi due album e sette singoli di Dylan c’è sempre stata una chitarra elettrica, e si sapeva già da tempo che si sarebbe portato dietro un gruppo di supporto ». La Davies era stata al concerto di Cardiff sei giorni prima, uno dei primissimi appuntamenti di tutto il tour. E anche lì gli avevano gridato “traditore!”.
Evidentemente Manchester non era un caso isolato. Il pubblico rumoreggiava e si incattiviva sempre di più a ogni concerto, ma l’impeto della musica travolgeva tutto davanti a sé e in prima linea c’era Dylan, saldo nella consapevolezza di avere la potenza di fuoco necessaria per spuntarla. Erano otto mesi che Dylan provava con il gruppo prescelto e riaddestrato all’uopo, la bar-band di Toronto (Levon and) the Hawks. Dopo che Levon Helm aveva abbandonato la nave aveva sperimentato sul campo altri due batteristi prima di optare per Mickey Jones, uno che picchiava duro sui piatti e veniva dalla band di Johnny Rivers: arrivò giusto in tempo per l’inizio del tour mondiale a Honolulu, il 9 aprile del 1966. Lo stile “picchiatore” di Mickey diede il giusto amalgama al tutto. E dal suo punto di osservazione privilegiato guardò con ammirazione Dylan che tutte le sere, da aprile a maggio, attaccava la presa della sua chitarra direttamente alla corrente dell’ispirazione.
Mickey Jones: «Nell’intervallo cominciava a caricarsi. Girava dietro le quinte con la sua chitarra, non vedeva l’ora di uscire sul palco e scatenarsi (…). A volte eravamo tutti caricati al massimo (…). Il nostro atteggiamento era “Chi se ne fotte del pubblico” (…).
Man mano che andava avanti il tour, Bob sembrava divertirsi sempre di più. Appena si metteva in spalla quella Telecaster nera, era pronto a scatenarsi: saltellava su e giù nei camerini, non vedeva l’ora di salire sul palco. C’è da dire che a volte non guardava mai il pubblico quando aveva la chitarra elettrica: suonava per la band, la sua attenzione era concentrata su di noi». Dovunque fosse concentrata la sua attenzio- ne, di certo Dylan ci metteva del suo per provocare il pubblico in alcuni concerti, fra cui quello di Manchester. Rick Saunders, che in quell’occasione faceva parte della sicurezza, ne era convinto. «Il fatto che ci mettesse così tanto ad accordare gli strumenti era un atto di sfida. Molto calcolato (…). Qualunque fosse il suo obiettivo, agiva a una velocità molto diversa da quella di tutti gli altri, compresa la band». A Manchester gli altri musicisti ormai erano consapevoli che il loro capitano avrebbe ribaltato qualsiasi animosità reindirizzandola fra il pubblico. Quel giorno di maggio, Dylan era di umore particolarmente provocatore. Tutta la fase preparatoria era stata piuttosto agitata: il lungo viaggio in macchina pieno di curve e tornanti attraverso la brughiera con Tom Keylock (tuttofare di Dylan, ndr) al volante, dopo una notte quasi del tutto insonne a Sheffield; un prolungato sound-check per trovare le sonorità giuste per il tecnico della Columbia che la sera prima aveva fatto un pasticcio con la registrazione; una litigata con il direttore della sala concerti quando il manager Al Grossman aveva chiesto di togliere le prime tre file per far posto alle attrezzature di registrazione ultimo modello; e un pubblico che già dal primo colpo di stivale sul palco per dare il la alla band e attaccare Tell Me, Momma aveva cominciato a esprimersi con la vivacità tipica del Nord dell’Inghilterra.
Per fortuna, Dylan ormai sapeva che catarsi è solo un altro modo per dire che non hai più nulla da perdere. La cosa curiosa è che Manchester era il secondo concerto (dopo quello di Londra) a fare il tutto esaurito. Perché la domanda di Dylan oltremanica non era mai stata così alta. Le vendite erano andate molto bene anche a Bristol, Cardiff, Birmingham, Liverpool, Leicester, Sheffield, Glasgow, Edimburgo e Newcastle, le altre tappe in provincia prima di Parigi e Londra, le due capitali che Dylan aveva messo nel mirino per la conclusione del tour.
Ma a ogni concerto — come attestano le bobine Nagra incise dal tecnico del suono Richard Alderson in tutti i concerti di maggio — c’era maretta. L’ostilità di alcuni settori del pubblico a volte era implacabile quanto la sfrenata cavalcata di suoni sguinzagliata dagli Hawks, ma non faceva altro che dimostrare che anche nella musica rock a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. E allora preparatevi a essere presi alla sprovvista — come fu preso alla sprovvista Dylan — dalla reazione al suo nuovo stile musicale proprio nel Paese in cui aveva un richiamo commerciale comparabile ai Beatles e ai Rolling Stones (sia gli uni che gli altri andarono ai concerti londinesi e li apprezzarono moltissimo). Non che l’uomo nell’occhio del ciclone fosse disposto ad ammettere che quella reazione tanto virulenta lo avesse ferito. Lasciò il compito alla sua amica, la cantante blues Dana Gillespie, che alla fine del tour informò un settimanale di musica inglese.
Dana Gillespie: «È rimasto molto sorpreso dalla reazione del pubblico inglese. Pensava che l’Inghilterra fosse molto più avanti di qualsiasi altro Paese nella musica pop e non riusciva a capire perché veniva contestato e fischiato. La verità è che Bobby ha sempre voluto essere un cantante rock, come Elvis Presley. Quando ha raggiunto la fama come cantante folk ha pensato che poteva cambiare strada e farsi accettare anche come cantante rock. Quando gli spettatori hanno contestato e deriso i suoi pezzi rock a Londra, per irritarli ha fatto ancora più il rockettaro ».
E non fu solo a Londra che Dylan e la sua band fecero “ancora più i rockettari” ogni volta che cominciavano i fischi, anche se l’aggressività verbale di Dylan in quell’ultimo concerto londinese è quella di un uomo allo stremo, che tenta il tutto per tutto. Per la prima volta, il dramma in multi-cd di quei concerti europei (e i due concerti australiani registrati direttamente dal sistema di amplificazione) si dispiega di fronte a orecchie fin qui inconsapevoli, trasmettendo la netta impressione di ascoltare la storia in corso d’opera: la reazione del pubblico a ogni concerto sovrapposta a una band che suona come se ne andasse della propria vita. E non solo la vita, ma la direzione stessa della musica. Come commentòD. A. Pennebaker ripensando al tour che fu spedito a documentare: «Quella musica stava generando tutta la musica altrove. Persone che nemmeno avevano visto quei concerti ne ricevevano indirettamente qualcosa (…). (Avevano) l’attrattiva carismatica che ha sempre l’occhio del ciclone».
Dylan aveva deciso di fronteggiare a muso duro la marea montante di conformismo, almeno da parte dei critici londinesi, che amavano la metà acustica del concerto e odiavano quella elettrica. Al ventisettesimo pezzo rispose direttamente alle recensioni di quel mattino, prima di I Don’t Believe You: «Vi prego di scusarmi: mi rendo conto che è musica rumorosa, ma se a voi non piace, beh, pazienza. Se avete dei suggerimenti per migliorarla, ottimo. Ma il punto è che non è musica inglese quella che state ascoltando (…). Quello che state ascoltando ora è il suono delle canzoni, nient’altro: prendere o lasciare. A me non importa, dico davvero (…). Se la pensate diversamente, non mi metterò a litigare con voi (…). Comunque, questo guarda caso è un pezzo vecchio, intitolato I Don’t Believe You: prima era in quel modo e ora è in questo modo… e va bene così!». E allora mettetevi comodi e fate partire il cd; e come disse qualcuno che si trovava vicino a uno dei microfoni del palco alla Free Trade Hall di Manchester: «Suonatela a tutto volume!».
( Traduzione di Fabio Galimberti) Il testo, tratto dal libretto che accompagna il box, è del critico Clinton Heylin, autore, sullo stesso tema, del libro Judas! From Forest Hills to the Free Trade Hall 

La Repubblica, 13 nov 2016Il 4 febbraio del 1966 iniziò il tour che “cambiò il rock’n’roll per sempre” Oggi potete riascoltarlo e soprattutto “rileggerlo” nelle testimonianze di allora
Quando Bob Dylan tradì il folk
CLINTON HEYLIN
COME MOLTISSIMI FAN TROPPO MALEDETTAMENTE GIOVANI per aver potuto vivere i concerti del 1966 in tempo reale, il mio primo contatto con il sound di Dylan & the Hawks di allora fu un album semiclandestino chiamato, a seconda dei casi, In 1966 There Was, The Royal Albert Hall Concert o Looking Back. Quella registrazione di un concerto a Manchester (come si è scoperto poi), pubblicata nella sua interezza nel 1998 come quarta uscita delle “Bootleg Series” ufficiali della Sony, non era semplicemente incendiaria, sconfinava nell’anarchia. Gruppi di fan contrapposti vennero quasi alle mani in platea, al manifestarsi della violenza della musica. Uno studente di sociologia, di nome Keith Butler, quasi stramazzò per lo choc prima di tirar fuori un’unica parola “Giuda!”, la sua profetica risposta alla domanda a cui Dylan aveva preparato il terreno tutta la serata: “How does it feel? Che ve ne sembraaa?”. Uscendo infuriato dalla sala per assaporare l’aria primaverile, Butler si ritrovò un microfono sotto il naso e una telecamera portatile puntata in faccia. E di nuovo quella domanda: che le è sembrato? «È un traditore. Vuole una sparatoria. Striscia nelle fogne cercando di guadagnarci su».
Era così in tutti i concerti? Dopo tutto erano passati già dieci mesi (e tanta carta di giornale da distruggere un bosco) da quando Dylan aveva lanciato le sue nuove sonorità rock, e a un festival di musica folk nel Rhode Island per di più. Di sicuro la notizia doveva essere arrivata a Manchester. Di certo era arrivata nella redazione londinese del Melody Maker. Un articolo sul numero del 30 aprile 1966 del celeberrimo settimanale musicale era intitolato: «Dylan si porta dietro un suo gruppo: gli farà da spalla per metà di ogni concerto ». Chiaro, no? Non per tutti.
Le reazioni virulente di quella serata spinsero una giovane Erica Davies a scrivere una lettera al Melody Maker, la stessa settimana del concerto di Manchester, «per protestare contro l’atteggiamento di una parte del pubblico di Dylan. Gridare “traditore” e andarsene perché si è presentato in scena con una chitarra elettrica è infantile. Queste persone evidentemente girano con i tappi nelle orecchie, perché negli ultimi due album e sette singoli di Dylan c’è sempre stata una chitarra elettrica, e si sapeva già da tempo che si sarebbe portato dietro un gruppo di supporto ». La Davies era stata al concerto di Cardiff sei giorni prima, uno dei primissimi appuntamenti di tutto il tour. E anche lì gli avevano gridato “traditore!”.
Evidentemente Manchester non era un caso isolato. Il pubblico rumoreggiava e si incattiviva sempre di più a ogni concerto, ma l’impeto della musica travolgeva tutto davanti a sé e in prima linea c’era Dylan, saldo nella consapevolezza di avere la potenza di fuoco necessaria per spuntarla. Erano otto mesi che Dylan provava con il gruppo prescelto e riaddestrato all’uopo, la bar-band di Toronto (Levon and) the Hawks. Dopo che Levon Helm aveva abbandonato la nave aveva sperimentato sul campo altri due batteristi prima di optare per Mickey Jones, uno che picchiava duro sui piatti e veniva dalla band di Johnny Rivers: arrivò giusto in tempo per l’inizio del tour mondiale a Honolulu, il 9 aprile del 1966. Lo stile “picchiatore” di Mickey diede il giusto amalgama al tutto. E dal suo punto di osservazione privilegiato guardò con ammirazione Dylan che tutte le sere, da aprile a maggio, attaccava la presa della sua chitarra direttamente alla corrente dell’ispirazione.
Mickey Jones: «Nell’intervallo cominciava a caricarsi. Girava dietro le quinte con la sua chitarra, non vedeva l’ora di uscire sul palco e scatenarsi (…). A volte eravamo tutti caricati al massimo (…). Il nostro atteggiamento era “Chi se ne fotte del pubblico” (…).
Man mano che andava avanti il tour, Bob sembrava divertirsi sempre di più. Appena si metteva in spalla quella Telecaster nera, era pronto a scatenarsi: saltellava su e giù nei camerini, non vedeva l’ora di salire sul palco. C’è da dire che a volte non guardava mai il pubblico quando aveva la chitarra elettrica: suonava per la band, la sua attenzione era concentrata su di noi». Dovunque fosse concentrata la sua attenzio- ne, di certo Dylan ci metteva del suo per provocare il pubblico in alcuni concerti, fra cui quello di Manchester. Rick Saunders, che in quell’occasione faceva parte della sicurezza, ne era convinto. «Il fatto che ci mettesse così tanto ad accordare gli strumenti era un atto di sfida. Molto calcolato (…). Qualunque fosse il suo obiettivo, agiva a una velocità molto diversa da quella di tutti gli altri, compresa la band». A Manchester gli altri musicisti ormai erano consapevoli che il loro capitano avrebbe ribaltato qualsiasi animosità reindirizzandola fra il pubblico. Quel giorno di maggio, Dylan era di umore particolarmente provocatore. Tutta la fase preparatoria era stata piuttosto agitata: il lungo viaggio in macchina pieno di curve e tornanti attraverso la brughiera con Tom Keylock (tuttofare di Dylan, ndr) al volante, dopo una notte quasi del tutto insonne a Sheffield; un prolungato sound-check per trovare le sonorità giuste per il tecnico della Columbia che la sera prima aveva fatto un pasticcio con la registrazione; una litigata con il direttore della sala concerti quando il manager Al Grossman aveva chiesto di togliere le prime tre file per far posto alle attrezzature di registrazione ultimo modello; e un pubblico che già dal primo colpo di stivale sul palco per dare il la alla band e attaccare Tell Me, Momma aveva cominciato a esprimersi con la vivacità tipica del Nord dell’Inghilterra.
Per fortuna, Dylan ormai sapeva che catarsi è solo un altro modo per dire che non hai più nulla da perdere. La cosa curiosa è che Manchester era il secondo concerto (dopo quello di Londra) a fare il tutto esaurito. Perché la domanda di Dylan oltremanica non era mai stata così alta. Le vendite erano andate molto bene anche a Bristol, Cardiff, Birmingham, Liverpool, Leicester, Sheffield, Glasgow, Edimburgo e Newcastle, le altre tappe in provincia prima di Parigi e Londra, le due capitali che Dylan aveva messo nel mirino per la conclusione del tour.
Ma a ogni concerto — come attestano le bobine Nagra incise dal tecnico del suono Richard Alderson in tutti i concerti di maggio — c’era maretta. L’ostilità di alcuni settori del pubblico a volte era implacabile quanto la sfrenata cavalcata di suoni sguinzagliata dagli Hawks, ma non faceva altro che dimostrare che anche nella musica rock a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. E allora preparatevi a essere presi alla sprovvista — come fu preso alla sprovvista Dylan — dalla reazione al suo nuovo stile musicale proprio nel Paese in cui aveva un richiamo commerciale comparabile ai Beatles e ai Rolling Stones (sia gli uni che gli altri andarono ai concerti londinesi e li apprezzarono moltissimo). Non che l’uomo nell’occhio del ciclone fosse disposto ad ammettere che quella reazione tanto virulenta lo avesse ferito. Lasciò il compito alla sua amica, la cantante blues Dana Gillespie, che alla fine del tour informò un settimanale di musica inglese.
Dana Gillespie: «È rimasto molto sorpreso dalla reazione del pubblico inglese. Pensava che l’Inghilterra fosse molto più avanti di qualsiasi altro Paese nella musica pop e non riusciva a capire perché veniva contestato e fischiato. La verità è che Bobby ha sempre voluto essere un cantante rock, come Elvis Presley. Quando ha raggiunto la fama come cantante folk ha pensato che poteva cambiare strada e farsi accettare anche come cantante rock. Quando gli spettatori hanno contestato e deriso i suoi pezzi rock a Londra, per irritarli ha fatto ancora più il rockettaro ».
E non fu solo a Londra che Dylan e la sua band fecero “ancora più i rockettari” ogni volta che cominciavano i fischi, anche se l’aggressività verbale di Dylan in quell’ultimo concerto londinese è quella di un uomo allo stremo, che tenta il tutto per tutto. Per la prima volta, il dramma in multi-cd di quei concerti europei (e i due concerti australiani registrati direttamente dal sistema di amplificazione) si dispiega di fronte a orecchie fin qui inconsapevoli, trasmettendo la netta impressione di ascoltare la storia in corso d’opera: la reazione del pubblico a ogni concerto sovrapposta a una band che suona come se ne andasse della propria vita. E non solo la vita, ma la direzione stessa della musica. Come commentòD. A. Pennebaker ripensando al tour che fu spedito a documentare: «Quella musica stava generando tutta la musica altrove. Persone che nemmeno avevano visto quei concerti ne ricevevano indirettamente qualcosa (…). (Avevano) l’attrattiva carismatica che ha sempre l’occhio del ciclone».
Dylan aveva deciso di fronteggiare a muso duro la marea montante di conformismo, almeno da parte dei critici londinesi, che amavano la metà acustica del concerto e odiavano quella elettrica. Al ventisettesimo pezzo rispose direttamente alle recensioni di quel mattino, prima di I Don’t Believe You: «Vi prego di scusarmi: mi rendo conto che è musica rumorosa, ma se a voi non piace, beh, pazienza. Se avete dei suggerimenti per migliorarla, ottimo. Ma il punto è che non è musica inglese quella che state ascoltando (…). Quello che state ascoltando ora è il suono delle canzoni, nient’altro: prendere o lasciare. A me non importa, dico davvero (…). Se la pensate diversamente, non mi metterò a litigare con voi (…). Comunque, questo guarda caso è un pezzo vecchio, intitolato I Don’t Believe You: prima era in quel modo e ora è in questo modo… e va bene così!». E allora mettetevi comodi e fate partire il cd; e come disse qualcuno che si trovava vicino a uno dei microfoni del palco alla Free Trade Hall di Manchester: «Suonatela a tutto volume!».
(Traduzione di Fabio Galimberti) Il testo, tratto dal libretto che accompagna il box, è del critico Clinton Heylin, autore, sullo stesso tema, del libro Judas! From Forest Hills to the Free Trade Hall) 
La Repubblica, 13 nov 2016

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