domenica, gennaio 22, 2012

Indignati e forconi siciliani

Santo Della Volpe
di Santo Della Volpe
C’è una antica maledizione che aleggia sulla Sicilia: la difficoltà ad indignarsi come gli altri, in Italia o nel mondo. O meglio impossibilità. Perché c’è sempre un retropensiero o uno scopo diverso che devìa, in Sicilia, istanze di giustizia e proteste sacrosante verso derive  pericolose, vicine all’orlo del vuoto, là dove la democrazia finisce e si rischia la caduta libera nell’antistato.
Così mentre gli indignati del mondo occupano Wall Street o le piazze di Parigi, parlano in TV dicendo, giustamente, di rappresentare il 99% della popolazione contro ricchi e straricchi dell’1%, in Sicilia si tirano fuori i forconi in disuso  dai pagliai, ci si nomina in modo sinistro “Forza d’urto” (nome che evoca un incidente stradale o simboli da stadio,più che un movimento); e si bloccano i camion di frutta, cibo, medicinali e le cisterne di benzina, con simboli arcaici di un  passato che malinconicamente qualcuno evoca a sproposito; tirando fuori le bandiere della Trinacria gridando ‎”Sicilia indipendente”, slogan e programma di quel partito chiamato “Sicilia libera” (di Leoluca Bagarella, cognato di Riina, altra congrega di critici dello Stato e propugnatori dell’autonomia sicula), e prima ancora di Salvatore Giuliano che, guarda caso, sparava sui contadini a Portella della Ginestra, oltre che sulla polizia.
Altra maledizione siciliana: appena urli e protesti giustamente (perché in Sicilia il gasolio costa sino al 40% in più rispetto al continente e perché la disoccupazione è più alta che altrove e l’industria più importante è ormai rimasta l’Ente Regione Sicilia,vera Cassa Integrazione siciliana; e per tanti altri motivi)… Ebbene appena alzi la voce, ecco che spunta la mafia e l’accusa di infiltrazioni mafiose, come giustamente ha fatto il presidente della Confindustria siciliana, Ivan Lo Bello. Ma possibile che appena protestiamo ci date dei mafiosi? Mi diceva un amico siciliano al telefono ieri. No, non sempre: quanto  erano chiari i lenzuoli bianchi ai balconi dopo Falcone e Borsellino, quanto erano impegnati e chiari i volti degli studenti di Palermo che  scendevano in piazza pochi mesi fa per avere non dico la Cultura, che giustamente pretendono, ma almeno degli edifici scolastici che non cadano loro sulla testa…! Ed allora il problema non è la protesta, ma il modo e l’obiettivo: perché c’è differenza tra quegli studenti dei mesi scorsi e quelli che in questi giorni hanno bruciato in piazza il tricolore. Ecco, loro con sincerità giovanile hanno svelato il crinale pericoloso lungo il quale i forconi, anche quando verranno a Roma, stanno correndo, rischiando il vuoto; perché bruciare la bandiere vuol dire disconoscere alcuni fondamentali della democrazia di questo paese, oppure peggio, conoscerli e calpestarli. Vuol dire confondere le azioni dei governi con l’essenza dello Stato, stabile garanzia indiscussa dell’identità nazionale, espressione di coesione sociale, di comunità, di nazione, di storia individuale e collettiva da difendere anche con la morte. Non a caso l’articolo12 della Costituzione che riguarda la nostra bandiera si trova tra i principali articoli della Carta, quelli che riguardano diritti e doveri dei cittadini. Nessuno di quei diritti e di quei doveri può essere leso, nemmeno in nome della difesa di un altro diritto. Il diritto al lavoro così come il diritto alla cultura camminano insieme al dovere di onorare Stato e Istituzioni perché in quella cornice si inquadrano. Quello Stato spesso assente in Sicilia, tante volte invece fin troppo presente con l’assistenzialismo e la pioggia di soldi usata per distribuire appalti al “tavolino” della mafia. Quello Stato che si invoca sempre come assente, sia che manchino le strisce pedonali per terra, sia che manchi il lavoro o che la Fiat vada via da Termini Imprese. Quello Stato che si vuole assente, tante, troppe volte, perché in quei vuoti ci entra di tutto e tutt’altro: la violenza mafiosa, gli appalti truccati, la corruzione per far arricchire chi ha soldi e nomi da spendere, per costruire abusivamente, per rompere la legalità.


Così si torna da capo, in un circolo vizioso che è poi quell’incredibile corto circuito siciliano che dura da anni, in un susseguirsi di parole e grandi slanci, cui seguono ricadute e gattopardeschi ritorni indietro. Non fa forse pensare che un sindaco come quello di Palermo si dimetta e lasci nel vuoto la capitale dell’isola,mentre per strada tornano i forconi e le stesse proteste e assurdità di latifondisti e mafiosi di 50-60 anni fa? C’è da pensare, per tutti: per la politica di governo che ha succhiato consenso in Sicilia con operazioni solo di facciata e distribuzione di soldi, appalti e lavoro solo per i soliti noti. Ed anche per i partiti di opposizione che hanno lasciato spegnere la primavera siciliana degli anni ’90. C’è da pensare anche per quella grande parte della Sicilia che si indigna per i forconi oggi perché per anni ha chiesto pulizia e lotta alla corruzione in modo pulito e coraggioso: con  i magistrati coraggiosi, con la lotta vera alla mafia, con Addio Pizzo, con Libera, con le terre confiscate a cosa nostra e curate dalle cooperative di giovani, con  i tanti testimoni di giustizia che rischiano la vita, con gli industriali che dicono no al “tavolino” degli appalti e tanti altri.
Quella parte di Sicilia che oggi chiede  interventi perché le radici del malcontento vengano affrontate con investimenti e lavoro per i giovani e per il futuro. Ma che si vede scavalcata dall’antipolitica perché “l’indignato” grida ma deve essere anche ascoltato. Sennò ci sarà chi lo farà al posto di chi dovrebbe farlo. Scriveva ieri sull’Unità Mila Spicola, da Palermo: "Non lo hanno ascoltato pienamente i governi che si sono avvicendati e non lo hanno fatto i partiti, che lo esorcizzano e lo tengono lontano, sempre più ammalati al loro interno da “regole” non dichiarate di cooptazione, esclusione, organizzazione che spesso poco hanno a che fare con gli aneliti di espressione libera e democratica e molto hanno a che fare con la guerra tra bande interna al partito e non all’elaborazione di risposte per l’organizzazione collettiva…Invece, in Sicilia almeno: dentro un partito difficilmente ci si può esprimere attraverso i dissensi se non prendendosi il sospetto di avere altri fini se non il dibattito medesimo, il Palazzo è sempre più lontano e sordo e l’attività individuale del politico eletto è sempre più di stampo clientelare, senza nessuna condanna, legale o ideale. Nel bene e nel male. Un sistema di do ut des che si autoalimenta sempre nel bisogno, nel degrado, nel sottoviluppo”.


Eccola che ritorna questa maledizione siciliana che vorremmo si risolvesse almeno in questo secolo… Eccola lì, anche nella protesta dei forconi che, più che motivata come dicevamo nelle ragioni e motivazioni, si macchia della solita richiesta di scambio: a ‘Roma’…allo ‘Stato assente’ con la stessa logica del volere perché ci spetta, dello scambio tra quello che noi abbiamo e diamo (il voto) e quello che ci devono dare…ecc.ecc. …Protesta che poi diventa sempre meno comprensibile se la sostanza si colora con atti di prepotenza, se si ritorce solo sulle persone comuni e non sui veri responsabili, se si limita al solito sfogo “adesso spacchiamo tutto” con cori da stadio e modi e forme parafasciste che i veri padroni del vapore, allo stadio come nelle campagne, guardano dall’alto, sorridendo.
C’è  da riflettere dunque dentro gli aderenti ai “forconi”, quei siciliani che hanno usato il voto per premiare quegli stessi politici che ora accusano, ma che per decenni hanno votato.
Allora che la protesta sia vera, profonda, organizzata ma democratica e senza infiltrazioni, ne parafascista alla ‘boia chi molla’, ne mafiosa. C’è poco da dire non vogliamo la mafia o fare sciopero della fame contro le parole di Ivan Lo Bello. Si agisca abbassando per un momento i forconi e dicendo, ai microfoni delle Tv come ai megafoni dei blocchi, presenti o futuri, le parole chiare che contano. Dicano e facciano i capipopolo siciliani di oggi: dicano in faccia ed allontanino dai blocchi e dalle piazze quegli autisti dei mezzi pesanti e movimento terra che tutti sanno in Sicilia da chi sono pagati, dicano di no e allontanino quei commercianti che pagano il pizzo e vanno dicendo che “addio Pizzo” è una associazione di giovani illusi: invitino alle manifestazioni, pacifiche, i magistrati antimafia ed i prefetti a dialogare per dimostrare di non avere infiltrazioni di vario genere: dicano a quegli imprenditori e piccoli padroncini che affermano pubblicamente che “almeno la mafia fa mangiare” di uscire dalle manifestazioni e non confondersi con loro. Dicano apertamente,conti alla mano come fa il presidente Ivan Lo Bello, quanti sono i milioni di Euro di sviluppo che la mafia sottrae alla libera concorrenza ed all’imprenditoria siciliana, con la violenza della propria presenza e dei propri soprusi.


E  dicano gli studenti palermitani cosa pensano del proprio futuro con le bandiere tricolori sbandierate a Piazza Politeama: urlino e forte… ma poi ricordiamoci tutti, ma proprio tutti, che è meglio posare i forconi e levare le penne, i libri, i pensieri e le parole, in modo pulito ed aperto; e poi nel segreto dell’urna. A difesa dei vostri diritti ma anche  dei diritti e doveri di tutti: c’è chi ci ha perso la vita a viso aperto nel difenderlo quel limite democratico, quello Stato e quelle Istituzioni. La bandiera ne reca memoria, sangue e speranza. Scriveva S. Borsellino che “La Rivoluzione si fa nelle piazze con il popolo, ma il cambiamento si fa dentro la cabina elettorale con la matita in mano. Quella matita, più forte di qualsiasi arma, più pericolosa di una lupara e più affilata di un coltello.”

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