giovedì, gennaio 26, 2012

Consolo e la bellezza della nostra lingua

Vincenzo Consolo

Non ho avuto la fortuna di conoscere Vincenzo Consolo, siciliano delle mie parti, visto che a separarci era il crinale delle vette aguzze delle Madonie, verdi di ulivi e sugheri che sfumano verso nord nella catena dei Nebrodi. Il suo paese si adagia ai piedi dei monti distendendosi verso il Tirreno, il mio rimane arroccato sulle cime più alte, a 1100 metri di altitudine. Da lassù però nelle limpide giornate di tramontana la vista corre sino al mare dove emergono due piccole isole delle Eolie, Alicudi e Filicudi, le stesse che Consolo dovette amare. 

Non l’ho conosciuto di persona ma ho letto tutti i suoi libri diventando una sua ammirata lettrice. Retablo è stato il primo. Un piccolo volumetto che mi era stato regalato da un amico e che mi ha prima sorpresa, poi incantata e infine appassionata. L’ho letto e riletto senza stancarmi, cercando di assaporarne la musicalità, rapita dalla maestria della parola che si fa canto e lirismo, essenza e pregnanza; stupita dalla capacità di far rivivere il paesaggio attraverso l’incantato sguardo del viaggiatore che respira bellezza e cultura imbrigliato com’è nella forza della passione per Rosalia, un amore forte e violento che gli fa intravedere la sua amata persino nelle sculture barocche.
E barocco per preziosismi è il suo lessico sperimentale intriso di dialetto, in un intreccio inestricabile di lessico e vernacolo che riporta la lingua alle sue origini, alla Scuola Siciliana, al volgare, a quello che sarebbe potuto diventare  la lingua italiana se a predominare fosse stata la Scuola siciliana. Sperimentazione linguistica di alto profilo, dotta, raffinata, sapiente. 
C’è in Consolo la bellezza della nostra lingua, con la sua straordinaria varietà semantica, la musicalità naturale, lingua che prima di essere parola è canto di sirene. Lo stesso canto che ammaliò Ulisse al ritorno alla sua Itaca. Lo stesso canto traboccante che Consolo si portò dentro per tutta la vita e che riversò nei suoi scritti. Tutti i suoi libri sono un ritorno alla Sicilia:  Il sorriso dell’ignoto marinaio,  le Pietre di Pantalica, Lunaria e Nottetempo casa per casa, premio Strega nel 1992, ambientato a Cefalù città trasformata dall’onda d’urto del turismo, dove per uno strana coincidenza ho trovato citate “le terre gerbide della famiglia Zangara”.  Terra di musica e poesia,  la Sicilia di Consolo, terra di ritorni senza ritorno, di chi si allatta al seno di questa madre straordinaria e poi deve allontanarsene  portando  in sé il gusto dolce del nettare appena succhiato. Sicilia filtrata dal ricordo, decantata dal tempo, distillata dalla nostalgia, impastata nell’anima, diventata grumo e parola, parola e grumo. Meraviglioso grumo che non indugia nella commiserazione, non si ferma alla sterile denuncia, percorre invece i territori insulari con straordinaria delicatezza, stupita meraviglia. 
Ed oggi piange uno dei suoi figli migliori, la Sicilia terra di distacchi e saluti, di addii senza speranza, di gente che va via e non torna più se non per abbeverarsi al sole cocente dell’agosto, all’acqua trasparente del Tirreno. Fu così per Verga, Pirandello, Quasimodo e Sciascia, ed è stato così per Consolo che a Milano ha studiato, ha vissuto ed è morto. Terra di partenza  e di addii, la Sicilia come donna amata si insinua però nelle pieghe del vivere, si mischia senza mai confondersi col luogo nuovo in cui vivere, così che  in nessun “luogo mi son potuto accasare” ammette  Quasimodo in una sua poesia dal momento che la casa interiore per il siciliano coincide sempre con la terra natia, le radici, la cultura, la sicilianitudine. Il ritorno delle spoglie di Consolo alla sua Sant’Agata di Militello rappresenta l’ultimo omaggio dello scrittore alla sua terra natia. Milano rimane la città del tempo occorso per andare e tornare. E questa volta per sempre.
Carmela Zangara

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