(LA REPUBBLICA - DAL NOSTRO INVIATO FILIPPO SANTELLI)
Ha chiuso un bar, e nella valle ne parlano tutti. Di bar ce ne sono altri, ma il Soana era “il” Bar: l’unico che faceva musica e tirava tardi, il ritrovo dei ragazzi di Ronco Canavese – 300 abitanti, “la capitale” – e dei paesini vicini, Ingria e Valprato, ancora più piccoli. Ora sulla porta c’è il cartello rosso “cedesi attività”, con un numero che da gennaio non chiama nessuno. Dentro è rimasto il bancone con la spillatrice delle birre. Nel giardino, sotto la pergola dove si beveva l’aperitivo, qualche panchetta e degli scatoloni.
«È un peccato, per i giovani non c’è niente», dice poco più avanti Christelle, che insieme al marito gestisce la macelleria. Parla da madre: suo figlio fa l’ultimo anno di scientifico a Rivarolo, 30 chilometri di curve a valle. È il liceo più vicino, ogni giorno guida un’ora e mezza per prenderlo all’uscita visto che con il bus ci si arriva la mattina ma non c’è la coincidenza per tornare. «Mio figlio sta bene qui, ama la montagna, non è di quei ragazzi incollati al telefono... ma quando piove i ragazzi che fanno?». A mille metri, in una valle stretta e ripida dell’Alto Piemonte, all’ombra del Gran Paradiso, la brutta stagione non finisce mai. «L’anno prossimo andrà all’università a Torino e si trasferirà lì», dice Christelle, che aveva la stessa età quando con i suoi genitori è tornata a Ronco da Parigi, dove tanti sono emigrati negli anni. Il dialetto di qui, franco-provenzale, aiutava.
E suo figlio tornerà? O sarà l’ennesimo giovane lasciato andare da un’altra e fragilissima Italia, quella delle aree interne? La storia, la logica delle opportunità e le statistiche suggeriscono un viaggio di sola andata: in un’Italia dove la popolazione cala e invecchia a ritmo preoccupante, i territori periferici vivono una desertificazione accelerata. Negli ultimi dieci anni gli abitanti delle cosiddette aree interne, tra decessi, trasferimenti verso le città o oltre confine, sono scesi di 700 mila unità, un calo del 5% contro quello dell’1,4 registrato nei poli urbani con le loro cinture.
Le famiglie se ne vanno perché mancano lavoro e servizi, così chiudono altre scuole, bar e negozi, in un circolo vizioso che pare impossibile da arrestare. Nell’ultimo decennio sono sparite dai piccoli centri 26 mila attività commerciali, una su dieci, e ogni anno le banche cancellano un centinaio di filiali, 3.300 Comuni non ne hanno più una. Se il fenomeno è più grave al Sud e lungo la dorsale appenninica, riguarda anche molti territori del Nord, come le valli tra Emilia e Toscana, le aree alpine del Friuli o del Piemonte, il delta del Po. Restano gli anziani, e chi resta invecchia: il rapporto tra ultra 65enni e bambini sotto i 14 anni, che vent’anni fa era del 133%, in linea con il resto d’Italia, è esploso al 214%.
La guerra dei piccoli numeri
C’è chi è messo peggio di Ronco: qui resistono un emporio, un panificio e una farmacia, oltre alla macelleria di Christelle. C’è l’asilo e una scuola elementare con i bimbi di età diverse tutti nella stessa classe, un medico di famiglia che visita in valle un giorno a settimana. Anche questo agosto gli emigranti sono tornati a villeggiare nelle vecchie case di famiglia e per strada le targhe francesi sono più di quelle italiane. Con l’aggiunta di qualche turista la popolazione risale a 3 mila persone, quelle di inizio ‘900, ma è un’illusione di qualche giorno. Fra poco rimarranno solo i residenti, più gli ospiti della vecchia casa di riposo trasformata in centro di accoglienza, molti ucraini, e chissà anche loro per quanto.
Le famiglie se ne vanno perché mancano lavoro e servizi. Chiudono scuole, bar, negozi e banche Un circolo vizioso che pare impossibile arrestare. In dieci anni gli abitanti delle aree interne tra decessi, trasferimenti verso le città o oltre confine, sono scesi di circa settecentomila unità
1. Che cosa sono le aree interne?
Sono i Comuni italiani più periferici, cioè più distanti da un “polo” in grado di fornire servizi essenziali come delle scuole secondarie superiori, un ospedale con emergenza e accettazione, una stazione ferroviaria. Si dividono in intermedie, oltre 28 minuti di distanza, periferiche, oltre 41 minuti, e ultraperiferiche, oltre 67 minuti
Un morto che cammina
«Siamo in mezzo a una guerra», dice Lorenzo Giacomino, 28 anni, geometra di professione e sindaco per vocazione, che nel 2021 è risalito in Val Soana, al borgo dei genitori, e si è fatto eleggere con l’idea di combattere lo spopolamento di questa montagna bella e aspra, «dove non nevica firmato». Il suo nemico? «Quelli che il poeta Franco Arminio chiama gli “scoraggiatori militanti”, che hanno visto solo il paese decrescere e pensano che potrà sempre e solo andare così».
Come stia andando questa guerra dei piccoli numeri, in cui anche la partenza di una famiglia è una catastrofe, neppure lui si azzarda a dirlo: «Dopo ogni buona notizia», l’apertura di un ostello, la ristrutturazione della scuola, «ne arriva una negativa». Non è solo il Bar Soana, che negli anni ha chiuso e riaperto varie volte. È anche il progetto che aveva presentato insieme agli altri sindaci e la consulenza del Politecnico di Torino, “La valle che sarà”, e per cui non ha ottenuto i fondi del Pnrr, salvo veder piovere milionate su borghi “gioiello” scelti chissà come dalle Regioni. Soprattutto, dice, è l’assenza di una politica nazionale a cui appoggiare gli sforzi: qualcosa che vada oltre l’idea di attirare il turista della domenica, che non lo obblighi a inseguire bandi immaginati a Roma, ma supporti progetti di lungo periodo per rendere la scelta di vivere da queste parti «un po’ meno difficile».
Una strategia per la verità ci sarebbe, da più di dieci anni. Si chiama Snai, Strategia nazionale aree interne, lanciata nel 2012 dall’allora ministro del Sud e della Coesione Fabrizio Barca. L’obiettivo era prima di tutto accendere un faro sui territori periferici, senza distinzione tra Isole, Sud, Centro e Nord, identificandoli sulla base della distanza dei servizi essenziali come scuole ed ospedali. Poi riconoscerne il valore per lo sviluppo dell’Italia, visto che comprendono il 60% del territorio, ricco di risorse naturali e culturali, e (ancora) un quarto della popolazione, 13 milioni e 300 mila persone, popolazione che se franasse tutta sulle città le farebbe collassare. Infine ribaltare la logica degli interventi: non spargere fondi o calare dall’alto un programma uguale per tutti, ma progettare insieme alle comunità e agli amministratori locali dei piani specifici che aumentino l’offerta di servizi, scommettendo che nel lungo periodo questo possa frenare lo spopolamento.
A oltre dieci anni di distanza che risultati ha avuto? Non si è neppure arrivati al punto di poter rispondere. Il meccanismo, forse perfino troppo ambizioso, ci ha messo un’eternità a mettersi in moto, scontrandosi con l’allergia dei ministeri a un metodo diverso e con la scarsità di competenze a livello locale. Nel 2022 risultavano comunque approvati gli iper-burocratici accordi quadro delle 72 aree coinvolte, per un valore degli interventi di 1,2 miliardi tra risorse europee e nazionali. Ma la quota effettivamente sborsata è ferma all’11,6%, una lentezza anche superiore a quella con cui l’Italia (non) spende gli altri fondi comunitari. «La strategia nasceva con una forte regia centrale, noi giravamo per i territori per supportarli e mediavamo tra le loro richieste e i ministeri: poi è stato tutto smontato», dice Sabrina Lucatelli, che è stata la coordinatrice del Comitato tecnico dal 2012 al 2019, e oggi dirige l’associazione Riabitare l’Italia. «Con questo governo il disastro è totale, ma già con i precedenti era mancata la volontà politica di portarla avanti, non capendone l’importanza ». Al dipartimento Coesione, ancora per poco sotto l’autorità del ministro Raffaele Fitto destinato a Bruxelles, il Comitato aree interne non ha un coordinatore e non si riunisce da oltre due anni.
La Snai è diventata così uno zombie. Non morta, perché rientra anche nella nuova programmazione dei fondi europei al 2027, con 54 nuove aree aggiunte. Ma in assenza della regia a Roma, il pallino l’hanno ripreso le Regioni, che avanzano a velocità diversissime riproducendo divari territoriali che si sperava di superare. A fine luglio il governo ha battuto un colpo, mettendo in consultazione la bozza di un nuovo Piano che dovrebbe aggiornare la strategia e darle una nuova governance. I modi però – solo un indice - , e i tempi – agosto – fanno immaginare a molti un passo solo formale. È con tutt’altra decisione che il ministro Fitto ha centralizzato a Palazzo Chigi il timone del Pnrr, il piano che per valore e urgenza ha fagocitato ogni altra politica. Anche quelle per le aree interne, con logiche molto diverse.
L’incanto del borgo
Durante e subito dopo la pandemia, l’Italia più remota è rientrata con forza nell’immaginario collettivo. In
Un mondo a parte, film di Riccardo Milani uscito a marzo, Antonio Albanese è un professore che stanco della caotica Roma si trasferisce in un paesino dell’Abruzzo in via di spopolamento, dove salva dalla chiusura la scuola grazie all’arrivo dei rifugiati ucraini con i loro bimbi. Con i lockdown e lo smart working di massa, questa fuga dalle città verso i paesini è stato un modo per non vivere rinchiusi in pochi metri quadrati. E quando si è ricominciato a viaggiare, ma non ancora a prendere aerei, i vacanzieri ne hanno riscoperto il fascino lento e pittoresco.
Ma più che portare attenzione sui i problemi di chi vive nelle aree interne, l’emergenza ha finito per idealizzare un luogo ideale chiamato “borgo”, sorta di contromodello delle città fuori dalla storia e dalla società. Ed è questa idea di borgo fiorito e turrito, a misura di gitante della domenica, ad essere finita al centro di uno dei più discussi bandi del Pnrr. Un miliardo di euro, più o meno le stesse risorse della Snai, divisi in due linee. La prima finanzia la rigenerazione di 21 località a rischio spopolamento individuate dalla Regioni, con la bellezza di 20 milioni ciascuna. A Elva, in Piemonte, sono planati su un villaggio di 80 anime a 1637 metri, dove tra le altre cose si vuole portare sedi staccate di tre università. La difficoltà di mettere a terra progetti faraonici entro giugno 2026, scadenza del Pnrr, è evidente: il ministero della Cultura ha appena inviato una diffida a Calascio, “Luce d’Abruzzo”, dove dei lavori previsti non è partito quasi nulla: restauro della rocca, albergo diffuso, parcheggi.
La seconda parte del bando borghi finanzia invece progetti più contenuti, da 1,6 milioni. Ma il meccanismo della gara mette comunque Comuni vicini in competizione e l’approccio resta centrato sulla dimensione culturale e turistica, con i servizi per i locali in secondo piano. Nella prima versione del Pnrr, in realtà, si era trovato uno spazio per rimpolpare anche la Strategia aree interne, 825 milioni per potenziare infrastrutture di comunità e servizi sanitari. Solo che nella revisione del dello scorso anno è stato uno dei capitoli stralciati dal governo. Il ministro Fitto ha assicurato ai Comuni in rivolta che le risorse arriveranno comunque.
Lavoro remoto
Quanto al lavoro a distanza, l’idea che potesse diventare un’occasione per riabitare i territori più remoti, non ha retto al brusco ritorno alla normalità di prima. I dati Istat dicono che tra il 2020 e il 2022 lo spopolamento delle aree interne si è in effetti arrestato, con un afflusso netto sia dal resto d’Italia che dall’estero. Ma i numeri 2023 già mostrano una nuova inversione di tendenza e in ogni caso neppure all’apice della pandemia si è fermata la fuga più grave, quella dei giovani laureati: in dieci anni “l’altra” Italia ne ha persi 120 mila. «C’è stata una illusione nata sull’onda dell’emergenza», dice Filippo Tantilo, antropologo e ricercatore dell’Inapp, per cui ha condotto un lavoro sull’impatto dello smart working nelle aree periferiche. «Il racconto del nomade digitale che dal Giappone torna sulle Madonie non regge, anche perché le aziende non sono state così decise nello sposare il lavoro a distanza».
Molti degli spazi di coworking che piccoli Comuni con connessioni ballerine avevano attrezzato, ora giacciono vuoti. Ma Tantilo, che ha scritto un libro-viaggio intitolato L’Italia vuota ,pensa che qualcosa nella mente delle persone sia rimasto: «Hanno capito che possono svolgere una vita più ubiqua. Quello che vediamo ora è uno smart working di medio raggio, che ha numeri più ridotti ma apre spazi interessanti per i comuni delle aree semi-interne ». Più in generale, dice, è il modello della città come del luogo in cui si vive meglio che sta entrando in crisi per varie ragioni, dai costi al disagio di tante periferie, che vivono un’emergenza diversa ma altrettanto grave. «Nelle aree interne c’è una quota del 10-15% di nuovi abitanti, migranti, giovani di ritorno e non, che hanno in parte sostituito i vecchi. Spesso sono molto mobili e attorno a loro si potrebbero disegnare nuove politiche di welfare e abitative meno legate al concetto di residenza».
Il reality delle case a un euro
Perché quello delle aree interne è anche un problema di case: da un lato tantissime abitazioni abbandonate cadono a pezzi, dall’altro può essere molto difficile per chi vorrebbe restare, tornare, o trasferirsi trovarne di decenti. Anche su questo aspetto si è tentata una scorciatoia: le case a un euro. Lanciata da Vittorio Sgarbi a Salemi, Comune del Trapanese di cui era diventato sindaco nel 2008, negli anni ha avuto numerosi imitatori, sindaci convinti di poter risistemare i centri storici, attirare investimenti e - magari - qualche nuovo abitante, e numerosi detrattori, che li hanno accusati di voler trasformare i paesini in Airbnb a disposizione dei turisti. Di spaesarli.
La realtà dice che in molti casi i risultati sono stati nulli, per complessità pratiche che spesso sfuggivano anche ai ben intenzionati. La prima è che bisogna trovare chi quelle case le voglia comprare, e per la maggioranza di Comuni né belli né brutti, ma assai remoti, non è scontato. La seconda è che in queste operazioni il Comune è solo un intermediario: deve cercare il legittimo proprietario, o dieci legittimi ereditieri sparsi per il mondo e convincerli a cedere la casa della pro-prozia al prezzo simbolico di una moneta. Che così simbolico per chi compra alla fine non è, considerati i costi notarili e l’obbligo di ristrutturare.
A Sambuca di Sicilia, in provincia di Agrigento, uno dei casi più mediatici, sono stati solo stranieri a comprare: una di loro, l’attrice italo americana Lorraine Bracco, ha trasformato la ristrutturazione in un reality. Lo stesso a Troina, nel Parco dei Nebrodi: «Maltesi, canadesi, francesi, australiani, americani, chi per abitarci qualche mese e chi in vista della pensione», racconta Angelo Baudo, 28 anni, architetto, che con la sua House Troina si occupa di gestire le richieste. L’interesse è esploso nel 2020, dopo un articolo della
Cnn che parlava del borgo. Ma in tutto sono state vendute appena sei case a un euro, più dieci a prezzo di mercato messe in vetrina sullo stesso portale. Una è diventata un Airbnb. Uno studio dedicato proprio a Troina trae conclusioni che valgono per tanti: non è né una svendita dei borghi, né la soluzione al loro spopolamento. «È chiaro che deve essere parte di una strategia più ampia», dice Baudo, lui stesso incerto se restare. «Qui la richiesta per un architetto come me è la piccola ristrutturazione, la facciata da rifare… alla fine il pane a tavola lo devi mettere».
Qualcosa è successo
«Case a un euro? A noi interessa generare abitanti, possibilmente felici». Come tutti i sindaci d’Italia Luca Santilli, 40 anni, ha alla parete la foto di Mattarella. Lui però ne ha anche una – più piccola – di Che Guevara. Le carte strabordano da ogni scaffale nella sede provvisoria del municipio di Gagliano Aterno, ma presto la ristrutturazione del convento di Santa Chiara finirà, dando nuovi spazi a tutti. Una ristrutturazione partecipata: è stata l’assemblea dei 230 cittadini a decidere cosa metterci dentro. Aprirà un emporio, perché oggi perfino per comprare latte e pasta bisogna fare cinque chilometri e arrivare giù a Castelvecchio, il centro più grande della valle. Aprirà un ristorante. Ci sarà un ostello, perché negli ultimi tempi in questo borgo al centro dell’Abruzzo, nella Valle Subequana, di persone hanno iniziato a venirne parecchie. Alcune restano: «Ne abbiamo contate una ventina in tre anni», dice Santilli. «Neoabitanti», li chiama. Un’enormità, nella guerra dei piccoli numeri dell’altra Italia, che mette Gagliano nel ristretto numero dei Comuni che sembrano riusciti almeno per un attimo a invertire la storia.
I presupposti erano più favorevoli che altrove, anche a causa di una disgrazia. In una specie di Covid ante litteram il terremoto del2009 che ha distrutto L’Aquila ha portato diversi gaglianesi che vivevano nel capoluogo, tra cui Santilli, a tornare al paese. Sono arrivati anche abbondanti fondi per la ricostruzione, che come testimoniano le gru che svettano sulla cima del borgo non sono ancora esauriti. Qualche tempo fa Gagliano fu definita addirittura “la Bengodi del terremoto”, visti gli oltre 50 milioni per un Comune di poco più di 200 abitanti. A parte rifiutare quell’etichetta – «se non si recuperavano le case inagibili avresti creato un paese ancora più fantasma» – Santilli dice che a innescare la scintilla è stato altro, cioè l’incontro con il giovane antropologo abruzzese Raffaele Spadano e gli altri scienziati sociali di Montagne in movimento, associazione nata per promuovere progetti di riattivazione delle comunità nelle aree interne.
Con Spadano, neoabitante numero uno, partono una serie di iniziative partecipate. Si inizia nel 2021 dalla comunità energetica, la prima d’Italia, installando i pannelli solari per produrre e consumare a chilometro zero. Poi l’anno successivo, sfruttando le case a disposizione del Comune, è la volta di “Nuove esperienze ospitali”: si offre un’abitazione a giovani laureati che vogliono trascorrere sei mesi a Gagliano. «Al primo bando sono arrivate 27 candidature, ci siamo detti: “Cavolo! 27 laureati che vogliono venire qui”», racconta Santilli. A selezionare i vincitori è una commissione di cittadini, poi tutta l’attenzione è sul creare un rapporto tra nuovi e vecchi abitanti, magari con un torneo di scopone in piazza, perché non restino corpi estranei.
Dei 16 ragazzi arrivati in tre anni alcuni sono rimasti: incrociamo Antonio Maiorino, infermiere, che al termine dei sei mesi ha proposto al paese un servizio di assistenza domiciliare. L’assemblea ha approvato, il Comune finanziato: l’infermiere di prossimità, figura che in molte altre aree interne si cerca di introdurre con difficoltà, a Gagliano è nato spontaneo. Ma c’è anche una coppia di ragazzi, lei di New Orleans e lui di Roma, che riapriranno il forno. E due strade più giù, in una casetta con giardino, ci sono Rocco e Vincenzo, che dopo 30 anni a Roma hanno deciso di trasferire qui i 24 mila volumi della Simon Tanner, storica libreria dell’usato della Capitale, con l’esposizione al piano di sotto e il loro appartamentino sopra. «Abbiamo rotto un’inerzia - dice Santilli -. Da un anno abbiamo più domanda cheofferta di case, persone che lavorano a L’Aquila e vogliono vivere qui, perché si sentono parte di un processo collettivo. Non abbiamo fermato l’esodo, ma abbiamo generato un flusso in entrata».
Una parte del mondo
Nell’ultima assemblea pubblica si è discusso anche dell’apertura del nuovo noleggio di e-bike, finanziato con fondi pubblici e affidato a un operatore privato del turismo sostenibile. A fianco al campo da calcetto la struttura a vetri è pronta, si aspettano le bici. Perché le attività che stanno sorgendo a Gagliano stiano in piedi e creino qualche posto di lavoro, attirare qualche turista è fondamentale. «Servono 500 pedalate al mese», dice Santilli, che ha scritto il piano economico delle e-bike di persona. «Per fortuna sono commercialista, anche se ho sempre meno tempo per farlo».
L’impressione è che nelle aree interne d’Italia non siano pochi gli amministratori preparati e pieni di volontà. Ma è evidente che quasi tutto ricada sulle loro spalle, con uno stipendio da mille euro (contro gli 11 mila di un consigliere regionale, che non firma atti) e pochissimo supporto. «Ci possono essere anche i soldi – spiega Santilli – ma il vero tema è il personale: noi abbiamo il segretario comunale un’ora a settimana, e siamo tra i più fortunati, in valle ci sono colleghi che lo hanno a chiamata, il tempo del consiglio». È il motivo per cui Gagliano non ha partecipato a bandi del Pnrr, e per cui i progetti della Strategia aree interne avanzano lenti. Il funzionario che fa da responsabile unico, in 36 ore a settimana, deve gestire anche tutto l’ordinario, dal lampione rotto alla strada da rifare. Né la Snai né il Pnrr hanno dato la possibilità ai sindaci di allargare l’organico, né con figure tecniche né con quei “manager di comunità” che si occupano della parte immateriale. Altrettanto importante, pensano qui.
Così Gagliano, uno dei pochissimi casi con una storia positiva da raccontare, dà la misura di quanto sia difficile. E di quanto ogni risultato sia fragile. Per i gaglianesi il pronto soccorso più vicino è a Sulmona, i casi gravi devono andare a L’Aquila. L’ambulanza che staziona in valle dimezza i tempi, ma restano comunque lunghi. A Sulmona sono il cinema o la piscina più vicini, i licei. La scuola di Castelvecchio, elementari e medie per tutti i 3 mila della valle, ha numeri di bambini che la tengono ogni anno in bilico tra sopravvivenza e chiusura, come quella diUn mondo a parte. «Ma quando parliamo di servizi essenziali non possiamo badare solo ai numeri, servono deroghe più decise rispetto a quelle – minime – concesse oggi alle comunità montane, non possiamo rispondere agli stessi criteri di Pescara», dice Santilli, padre di due figli.
Il loro futuro sarà qui? In un sondaggio su mille giovani delle aree interne tra i 18 e i 39 anni, intitolato “Giovani dentro”, più o meno la metà dice che “vorrebbe restare”, quel desiderio che l’antropologo Vito Teti ha definito “restanza”. Facciamo al sindaco una domanda provocatoria: perché, in un’epoca di risorse scarse, lo Stato dovrebbe provare a invertire uno spopolamento secolare, comune a tutte le aree interne del Mediterraneo? Perché non limitarsi ad accompagnare lo svuotamento dell’altra Italia e il suo scivolamento verso pianure e città? «Qui ci sono cittadini come gli altri – risponde – nei confronti dei quali lo Stato ha una responsabilità democratica, dopo aver sottoinvestito per anni. E poi perché credo davvero che in questo momento storico qui ci siano risorse da valorizzare: l’acqua, l’aria, la legna, uno stile di vita più sostenibile, dei vuoti che danno opportunità. Magari non per chi vuole lavorare in banca, ma per altri sì».
In Un mondo a parte la scuola si salva, ma è una favola. Quella di Opi, il paesino dell’Abruzzo dove il film è girato, ha chiuso nel 2016. E a giugno ha chiuso pure nel paesello vicino, Villetta Barrea. «A me infatti quella frase non convince, ci abbiamo anche fatto una campagna», dice Santilli. «Non siamo un mondo a parte, siamo una parte del mondo».
La Repubblica, 8 settembre 2024
(Longform)
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