lunedì, gennaio 09, 2017

Mafia e identità, perché va rivisto il cliché siciliano

La copertina del libro del prof. Visconti
PIETRO PERCONTI
Il saggio di Visconti cerca di superare il concetto della presunta specialità del territorio
Monti su un taxi in una città qualunque del mondo e il tipo ti fa: “Where you can from?”, “From Sicily”, rispondi. “Ah…”, fa il tassista, “mafia!”, con l’aria compiaciuta di chi pensa: Questa la so!. Ti assale un senso di rabbia mista a rassegnazione. D’altronde, ciascuno di noi ha un lato simile al tassista. Mentiremmo a noi stessi se alla domanda: “Cosa ti viene in mente pensando alla Baviera?”, rispondessimo dicendo: “Una regione prospera e vivace”, invece che “boccali di birra e paesaggi alpini”.
Le abitudini mentali seguono percorsi immediati segnati da stereotipi e pregiudizi. D’altra parte, l’identità culturale è un elemento prezioso per la vita delle persone. E uno si secca a sentirsi identificato con un gruppo di criminali. L’identità culturale aiuta a sentirsi “a casa”, legittimamente inseriti nella propria comunità e a proprio agio.

In Sicilia, però, la questione dell’identità culturale è una sorta di mania collettiva. Registi come Tornatore e scrittori come Camilleri sono noti nel mondo per la loro rappresentazione della sicilianità. Non c’è niente della Sicilia nel mondo che abbia tanto successo quanto l’immagine stereotipata della sicilianità. Coerentemente, verrebbe da dire, gli intellettuali siciliani non fanno che insistere sull’identità culturale della Sicilia. Fraintendendo Leonardo Sciascia, si ama dire che la Sicilia è una metafora (di tutto). Ai forestieri questa storia piace e i siciliani ci lucrano un po’ su. Niente di male, se si considera il lato, come dire, commerciale della faccenda. Ma, per il resto, tutto questo insistere sull’identità culturale della Sicilia è sintomo di arretratezza. Si osservi la vita culturale di Londra, Berlino o New York e ci si accorgerà che, intenti a disegnare le tendenze dei prossimi decenni, laggiù non si perde tempo a coltivare l’identità culturale londinese, del Brandeburgo o newyorkese. Quanto al fatto che la Sicilia possa essere considerata come una metafora del mondo, sì – in effetti si tratta di un esercizio immaginativo intrigante, ma funziona anche con la cultura veneziana o abruzzese.
In questa idea un po’ malsana dell’identità siciliana la mafia ha sempre giocato un ruolo strategico. Dal momento che la sicilianità, secondo gli entusiasti dell’identità culturale, sarebbe la caratteristica chiave della Sicilia, e quest’ultima è niente meno che una metafora della vita, allora anche essere mafiosi deve voler dire qualcosa di più che essere dei criminali. La mafia deve essere qualcosa di essenziale per la Sicilia, se contribuisce all’idea stessa della sicilianità. Ecco perché molti credono che la mafia sia dappertutto e che sia invincibile. Quando a Palermo c’era un morto ammazzato quasi ogni giorno, si diceva: ecco la prova della invincibilità della mafia. Quando, in seguito, la sequenza dei morti ammazzati è finalmente terminata, è venuta fuori la teoria che il silenzio della mafia era la prova della sua invincibilità. La mafia c’è, se la vedi; e c’è anche se non la vedi. La mafia è dappertutto.
Costantino Visconti ha scritto un libro per contrastare questo luogo comune ( La mafia è dappertutto. Falso!, Laterza). Parla di mafia e di antimafia, ma è anche un modo di superare l’idea che ci sia qualcosa di speciale nell’identità culturale dei siciliani e che, in ogni caso, la mafia non vi contribuisce in modo essenziale. Non è quello che molti dell’intellighènzia siciliana vorrebbero sentirsi dire. Eppure il libro sta avendo successo, segno che forse siamo pronti per visioni non convenzionali di ciò che succede in Sicilia. Visconti, che è un professore di diritto penale esperto proprio nella legislazione antimafia, sostiene che non dovremmo chiedere al contrasto contro i reati (di mafia) più di quanto esso possa effettivamente fare. Il modo stesso in cui la legislazione antimafia è stata concepita risente, tra l’altro, di ciò che Cosa nostra era allora. Man mano che le organizzazioni criminali mafiose vanno modificandosi, quella legislazione è destinata a diventare anacronistica. È fuori dal diritto penale che si gioca la partita, dice il professor Visconti, ma anche lo studente militante nei movimenti antimafia dagli anni ottanta. Solo quando riusciremo a levarci dalla testa l’idea che la mafia è come quella luce particolare che ha la Sicilia ogni volta che atterri a Punta Raisi, che sia dappertutto e silenziosa, solo allora vedremo che, alla fine dei conti, non si tratta che di un tipo di crimine, mutevole e con alterne fortune. Ultimamente in disgrazia, grazie alla reazione dello stato dopo la sfuriata pazzesca dei corleonesi. Sì, è proprio così: non si sono furbescamente eclissati per garantire con altri mezzi che tutto rimanga come è sempre stato. Sono semplicemente in galera e le organizzazioni criminali post-corleonesi hanno preso altre vie, benché altrettanto pericolose.
Privi del loro legame essenziale con la mafia, molti siciliani si sentono un po’ spaesati. I forestieri ancora di più. Eppure, quella che arriva dal libro di Visconti è una buona notizia. Solo richiede un piccolo cambiamento di postura mentale.

La Repubblica Palermo, 7 gennaio 2017

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