martedì, ottobre 16, 2012

Dopo sei anni, tornano a Corleone i postini di Bernardo Provenzano

Bernardo Provenzano il giorno dell'arresto
Calogero Lo Bue, Bernardo Riina e Francesco Grizzaffi lasciano le patrie galere dopo sei anni di reclusione.
Ha confessato non di essere un mafioso, solo di essersi lasciato convincere ad aiutare un povero vecchio malato. Che poi quel vecchio fosse Bernardo Provenzano, il capo di Cosa nostra ricercato da oltre quarant'anni, lui lo aveva intuito, certo,ma aveva deciso di fare ugualmente quello che gli avevano chiesto. «Per un sentimento di solidarietà umana», ha spiegato al giudice. E ha aggiunto: «Io sono estraneo a qualunque vincolo mafioso o criminale». Calogero Giuseppe Lo Bue, 60 anni, agricoltore di Corleone, favoreggiatore del capomafia, risponde così alle domande del magistrato quando lo interroga nel carcere di Termini Imerese.

Quello di Lo Bue era un nome noto da tempo agli investigatori. In passato era stato arrestato con l'accusa di appartenenza alle cosche, processato e assolto. «Gli avevano sequestrato dei beni che poi gli sono stati restituiti» forse un motivo in più per essere scelto come uno dei «terminali» individuati da Provenzano nell'ultima fase della sua latitanza. Lo Bue non lo nega. Prova però a giustificarsi sostenendo che ha accettato di portare i pacchi destinanti al padrino solo dall'inizio di marzo del 2006, e per un breve periodo: «Dall' inizio di marzo e non più di 4 o 5 volte. Me l'ha chiesto Bernardo Riina, dicendomi che sarebbe stato necessario per poco tempo. Allora ho detto sì e ho coinvolto mio figlio che all'inizio non voleva, ma io l' ho convinto. Me ne pento, è stato il grande errore della mia vita». Il figlio di Calogero è Giuseppe lo Bue e anche lui è finito in carcere dopo l' arresto del boss. È sposato con una nipote di Provenzano, per questo suo padre lo mandava dalla moglie dello «zio Binnu» a ritirare i pacchi destinati al latitante: così non avrebbe destato sospetti. Lo Bue, come il figlio e come il suo «committente», Bernardo Riina, è stato accusato di associazione mafiosa «per avere costituito tramite essenziale nella trasmissione sia di messaggi tra i vari componenti dell' associazione e il Provenzano durante la sua latitanza, sia di beni necessari alle esigenze logistiche di quest' ultimo», come hanno scritto nel loro provvedimento di fermo i magistrati.
In combutta dunque con quel Bernardo Riina, anche lui di Corleone, che già nel 2001 compariva (con nome cifrato da un codice alfanumerico) in una lettera inviata a Provenzano dal figlio Angelo.
Il codice prevedeva che la lettera A corrispondesse al numero 4, la B al 5 e via di seguito; di qui la trasformazione di quella serie di numeri nel nome di «Binnu Riina». Quel messaggio risale al gennaio del 2001 e dopo cinque anni Bernardo Riina era di nuovo un punto di riferimento della latitanza di Provenzano. Il principale, quello che ha portato la polizia fino alla tana del boss.
C'è poi Francesco Grizzaffi, bracciante agricolo, nipote del boss corleonese Salvatore Riina: Grizzaffi sarebbe stato tra i "postini" incaricati di smistare la corrispondenza tenuta, durante la latitanza, dal capomafia con gli uomini d'onore.
Avrebbe poi riscosso il pizzo, per conto del padrino di Corleone, dall'imprenditore Salvatore Romeo a cui avrebbero estorto 30 mila euro. Non solo mafia nel passato di Grizzaffi. Il nipote del Boss insieme con altri due imprenditori negli anni 1991 e 1992, aveva fatto risultare una compravendita fasulla ed il conseguente fittizio ammasso di grano per ottenere un rimborso di oltre ottocento milioni di lire dall'Amia, l'ente che per controllare l'andamento del prezzo del grano ne ritira una quantità dal mercato, provvedendo poi a rimborsare le imprese.
E' questo il biglietto da visita dei personaggi che in questi giorni torneranno a passeggiare per le vie di Corleone: Calogero Lo bue, Bernerdo Riina e Francesco Grizzaffi escono infatti dalle patrie galere dopo sei anni di detenzione. Dovranno rispettare obbligo di soggiorno e sorveglianza speciale. La pena è finita, andate in pace.
Nell'aprile del 2006, nei giorni caldi dell'arresto di Bernardo Provenzano,i tre erano stati accusati di favoreggiamento aggravato ed associazione mafiosa e per questo condannati a sei anni di reclusione. Ora trascorso il periodo della pena, escono dalle celle e tornano in libertà, certo in regime di sorveglianza speciale ma saranno pur sempre liberi.
Tornano nella stessa Corleone in cui avevano aiutato il capo dei capi, tornano in quella terra di mafia da cui erano stati portati via per reati gravissimi. Ecco come funzione la giustizia italiana, sempre che di giustizia si possa parlare: bastano pochi anni dietro le sbarre per scontare pene gravissime come quelle di favoreggiamento e associazione mafiosa, bastano sei anni per diventare cittadini, puliti e trasparenti, quasi ligi alla legge.
Si chieda l'opinione pubblica di Corleone e della Sicilia tutta se giustizia si può chiamare quella che scarcera i favoreggiatori e gli associati a cosa nostra dopo un periodo di tempo così breve.
In fondo stiamo pur sempre parlando di gente che nella vita ha deciso di aiutare Bernardo Provenzano, di fargli da faccendiere e postino, di accudirlo e gestirne la corrispondenza; insomma di gente che ha scelto di parteggiare per l'illegalità, per il capo dei capi e non per lo stato. Saranno bastati sei anni per istillare in questi loschi figuri il sentimento dello stato e della legge? Intanto i cittadini di Corleone aprano bene gli occhi, i tre Pdm ricompariranno tra i caffè e i viali della città che si è distinta in questi anni per la voglia di risorgere contro la mafia; ma mentre la società cerca di riscattarsi, i mafiosi torneranno con obbligo di soggiorno e sorveglianza speciale a prendere il caffè nei bar del centro.
Tratto da: Globalist.it
Lunedì 15 ottobre 2012

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