giovedì, ottobre 18, 2012

Rottamatori, occhio ai gattopardi!

Il ministro Fabrizio Barca
di Marco Damilano
«Un rinnovamento basato solo sull'età non cambierebbe niente: semplicemente, le poltrone passerebbero dai vecchi ai giovani. Serve una svolta vera, basata sul merito». Parla il ministro Fabrizio Barca
Controvento: «La rottamazione è l'altra faccia del gattopardismo». Convinto che per uscire dalla crisi sia necessario ricostruire i partiti. E speranzoso, lui che è uno dei ministri più gettonati di Mario Monti, che dopo le elezioni del 2013 nasca un governo politico: «Un governo di emergenza nazionale deve durare un tempo doverosamente brevissimo. Ma in una condizione normale per governare c'è bisogno dei partiti». E l'agenda Monti? «Mi chiedo da mesi cosa sia». Fabrizio Barca, 58 anni, ministro della Coesione territoriale, corteggiato dal centrosinistra come candidato sindaco di Roma, quotato per il dopo-elezioni alla guida di un super-dicastero economico, ragiona sulla classe dirigente che verrà. «In ogni nazione è fisiologico un momento di scoramento collettivo, noi ne stiamo vivendo uno, dimenticando che l'Italia è invidiata in Europa e nel mondo per il suo patrimonio culturale, ambientale, industriale. Com'è possibile che un Paese così forte si sia ridotto in questo stato? Abbiamo avuto una classe dirigente estrattiva che si è dedicata a gestire queste risorse immense in modo non innovativo. Ed è qui che dobbiamo cercare la soluzione: ritrovare una forte identità nazionale che esiste e che va rinnovata».

Lei li definisce estrattivi, la gente li chiama semplicemente politici corrotti. Per la Corte dei conti la corruzione costa 60 miliardi, il doppio della manovra Salva Italia.
«Al di là dei numeri il vero prezzo da pagare è che questo Paese è stato disabituato a competere con i propri mezzi. Se non sei integerrimo per motivi individuali o radici familiari ti abitui a crescere in una società dove si gioca sporco, dove i concorsi sono percepiti come taroccati, dove si bara fin dall'esame di maturità. So che è controcorrente dirlo: ma la zona grigia della politica è alimentata da comportamenti diffusi a livello popolare. Anche se, naturalmente, chi guida ha responsabilità enormi: è un modello».

Sicilia, Lazio e Lombardia tornano a votare sulla spinta degli scandali: questa classe politica è giunta al capolinea?
«Sono arrivati al capolinea i comportamenti del passato, un certo modo di governare. Non parlo solo dei partiti e della politica, l'abitudine estrattiva ha riguardato nel corso degli anni anche le classi amministrative e dei corpi intermedi. Ovunque le persone di valore che lavoravano nella politica o nell'amministrazione sono state bloccate perché ciò che contava era la capacità di accaparrarsi risorse. Ora la stagione della rendita è finita. Se si vuole reggere la sfida bisogna cambiare, innovare».

In che modo: rinnovare o rottamare? Le piace il verbo di Matteo Renzi?
«Mi sembra un termine burocratico. Anzi, un atto di non responsabilità. Un cambiamento che avviene per sostituzione, non per merito. Ho un'altra idea: per essere migliori non basta essere fuori dal Parlamento o essere più giovani di età. Il vero cambiamento non è il semplice tutti a casa, avviene con la competizione. Se non c'è questo, si proclama di voler rivoluzionare tutto senza mutare regola. Si invocano i giovani al posto dei vecchi sapendo che è un programma impossibile da realizzare. E la rottamazione diventa l'altra faccia del gattopardismo: cambiare tutto senza cambiare niente».

Però una questione generazionale (e di genere) esiste in Italia: lei a 58 anni è uno dei ministri più giovani del governo Monti.
«D'accordo: purché non si dica che in qualsiasi posto vanno bene qualunque giovane o qualunque donna. Prima viene il merito, la competizione».

Lei fa parte dell'establishment, è un pezzo di classe dirigente: quanto hanno contato l'origine familiare, la militanza giovanile nel Pci? E quanto il cursus honorum tipico del tecnocrate, il Mit di Boston, il centro studi della Banca d'Italia, il ministero del Tesoro?
«Nella mia formazione personale ha pesato moltissimo la militanza nei movimenti e in un partito. Un luogo in cui si tentava una discussione collettiva sulla soluzione dei problemi. Serviva a stemperare un approccio individualistico che è una virtù, ma è anche un vizio del nostro Paese».
Rimpiange le sezioni, le Frattocchie, la colla dei manifesti, il centralismo democratico? Si può riproporre quel modello nell'epoca della Rete?
«La Rete offre possibilità straordinarie di far circolare le informazioni. Ma non può sostituire i luoghi della politica dove ci si guarda in faccia e si stabilisce un rapporto anche fisico con più persone. C'è un'incapacità di far arrivare alla politica gli input che servono sul disagio della società perché non esistono i partiti che li veicolano dal basso verso l'alto. Se va bene sui giornali arrivano storie come quelle del bambino di Cittadella, casi individuali come quelli che ascoltiamo nelle trasmissioni di Maria De Filippi».

Sta dicendo che i partiti si sono ridotti a una puntata di "Uomini e donne" o di "Amici"?
«No, spesso, nonostante l'impegno di molti, stanno messi peggio. Almeno in tv arrivano i casi singoli, nella politica neppure quelli, figuriamoci la capacità di trarre lezioni collettive».

Altro che lezioni, i partiti sono detestati: il 40 per cento degli italiani non sa se andrà a votare. O medita di votare Beppe Grillo.
«Ma quello di Grillo è un partito! Diverso nella sua organizzazione, con il Web all'inizio, ma poi è un luogo dove la gente si incontra. Sa cosa mi dicono i ragazzi che sono attratti da Grillo? Lì possiamo parlare, partecipare, non solo ascoltare. Lo stesso vale per le primarie del Pd: le persone che vanno ai gazebo sono un fenomeno importante, Renzi comunque lo si giudichi mobilita. Vedo una forte domanda di partecipazione politica che poi deve incontrare un'offerta all'altezza». 

Lei ha scritto che la storia d'Italia dall'unità a oggi è «una serie di tentativi di dare vita a una classe dirigente adeguata». Perché è fallita la Seconda Repubblica?
«Non rimpiango la classe politica dell'ultima Prima Repubblica. Venti anni fa, con Tangentopoli, quei partiti si sono suicidati e si è attribuita alla forma-partito la responsabilità esclusiva del disastro. Ma dopo cosa abbiamo avuto? Da un lato il leaderismo in un partito che è stata un'organizzazione di selezionati, secondo i criteri gerarchici di un'azienda. Sul versante opposto, nel campo del centrosinistra, si è incespicato a lungo e alla fine si è concluso che il partito non esisteva più. Si è inseguito il modello americano. Il partito liquido, senza considerare che in una società dove tutto è liquido senza un qualche collante le fondamenta crollano. Oppure il cesarismo alla Blair che ha spezzato altri fili di democrazia: l'idea per cui i partiti servono solo a selezionare ogni cinque anni un premier e diciotto ministri e poi devono sparire...». 

Ministro, proprio lei lo dice? La prova che i partiti non ci sono più siete voi: il governo tecnico che commissaria la politica, con il divieto per i ministri di darsi un colore...
«Non avere un'appartenenza politica è il punto di forza di un governo di emergenza nazionale che deve durare un tempo doverosamente brevissimo. Ma in una condizione normale per governare c'è bisogno dei partiti».
Sa bene che in tanti vorrebbero un Monti bis anche nella prossima legislatura. E che Casini e Fini sognano un partito montiano: il governo Monti che si fa partito.
«Il governo Monti non è scaturito da un confronto politico che lo rendesse coeso sul futuro dell'Italia, su un progetto di lungo periodo. Noi ministri del governo tecnico siamo uniti sull'emergenza e sul metodo che riassumo in due parole: concorrenza e buona amministrazione. In un Paese ordinario dovrebbe essere patrimonio comune, noi ci siamo trovati in una condizione straordinaria. E' di questo metodo che deve restare traccia».

Anche i tecnici possono sbagliare, però: prima gli esodati, ora la legge di stabliità con il balletto sulle detrazioni.
«C'è in alcuni casi un deficit di conoscenza. Sugli esodati è andata così. Su altre questioni non ci siamo resi conto che potevamo raggiungere gli stessi risultati con costi minori». 

Lei parla di metodo Monti e non di agenda: eppure nel dibattito politico non si discute d'altro. Continuare con l'agenda Monti, rottamare l'agenda Monti...
«Mi sono spesso chiesto in questi mesi cosa significhi agenda Monti...».

E cosa si è risposto?
«Che ai governi futuri trasmetteremo un metodo, non un'agenda».

Qualche ministro (Corrado Passera) ha fatto capire di voler correre alle elezioni. E lei?
«Ho detto che non mi candiderò. Possono esserci singoli ministri che decidono di appartenere a questo o a quel partito. Ma spero che nessuno si candidi».

Circola il suo nome anche per il Campidoglio, con il centrosinistra. Le interessa?
«Che qualcuno pensi a me come candidato sindaco di Roma mi onora. Mi tengo questo sentimento».

Dopo il 2013 ci sarà un governo politico o un Monti bis?
«Dico che ci sarà un governo politico. Perché sono ottimista».
E in quel caso lei tornerà a fare il ministro, magari dell'Economia o dello Sviluppo?
«Non vedo oggi nella funzione di governo il modo migliore per proseguire il mio lavoro».

Tratto da: L'Espresso, 18 ottobre 2012

Nessun commento: