Leonardo Sciascia |
Nella seconda delle Considerazioni inattuali, intitolata Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Friedrich Nietzsche giunge a una sorta di classificazione del racconto biografico.
Egli scrive: «se desiderate biografie, non siano quelle con il ritornello “Il Signor Tal dei Tali e il suo tempo”, bensì quelle sul cui frontespizio dovrebbe essere scritto “un lottatore contro il suo tempo”». Per il filosofo tedesco vi sono biografie che descrivono una vita e altre che raccontano una lotta. Si accetta qui, come valida questa distinzione per far rilevare che Leonardo Sciascia non fu soltanto una voce fuori dal coro, non si fermò a un anticonformismo sia pure estremo, non si limitò a praticare una critica sia pure potente del suo presente bensì andò oltre e ingaggiò una vera e propria lotta contro il suo tempo. Della durezza e delle conseguenze di tale lotta egli fu perfettamente consapevole e mai si arrese. Illuminante, in proposito, un suo articolo comparso sul giornale “L’Ora” il 19 giugno 1964 e significativamente intitolato “L’uomo di lettere”. Dopo avere riportato un aforisma di Voltaire sulle disgrazie degli uomini di lettere, tra le quali grande sventura è secondo il pensatore francese quella di non avere alcun appoggio, Sciascia commenta: «la parte più interessante del giudizio di Voltaire è quella che mette l’accento sulla mancanza di appoggi: l’uomo di lettere, dice, “è un po’ come i pesci volanti: se si innalza un poco, gli uccelli lo divorano; se si immerge sott’acqua, se lo mangiano i pesci”. Bellissima condizione, anche se tremenda. Ma quanti sono oggi, in Italia, gli uomini di lettere disposti ad accettarla e viverla?». Domanda eternamente attuale, rivolta da Sciascia a futura memoria e alla quale pure dette una risposta anch’essa a futura memoria.
Tutta l’opera di Sciascia, ogni suo pensiero e ogni sua azione, è pensata e
attuata a futura memoria; e tutta la sua opera pone, al termine di un viaggio
movimentato e tormentato quale fu la sua vita di uomo, una questione essenziale
in questa nostra modernità sempre più divisa tra distopia e utopia: la
personalità debole di cui soffre l’uomo moderno, che Sciascia raffigura in Don
Abbondio, indicato come simbolo dell’eterno trasformismo e con il quale tutti,
ciascuno nel suo ruolo, dovremmo ogni giorno misurarci. È questo un particolare
del ritratto di Sciascia che sfugge alla visione dell’opera o che forse
preferiamo eludere dalla nostra vista e dalla nostra vita di uomini comodamente
rassegnati nel nostro tempo quando non soddisfatti parrocchiani del famoso Don
Abbondio.
Quel tale che s’impiccia dei fatti altrui
Amava presentarsi volterianamente come uomo di lettere.
Gianfranco Spadaccia lo definì scrittore politico, per Emanuale Macaluso fu uno
scrittore impolitico, per Felice Cavallaro era un eretico, per Vincenzo Consolo
era uno scrittore di pensiero; ma perché non dire che fu un intellettuale?
Sciascia fu un tipo particolare d’intellettuale; non è stato certamente
organico alla borghesia e al liberalismo come Croce né al proletariato e al
comunismo come Gramsci né al sottoproletariato e al marxismo come Pasolini né
al ceto medio e alla terza via socialista-liberale di un Gobetti o un Rosselli.
Egli fu un intellettuale che concepì la cultura al modo degli antichi greci,
come accordo tra vivere, pensare, apparire e volere, senza simulazione e
convenzione, come physis nuova e migliorata. Egli concepì il
suo essere intellettuale così come fu concepito dal “Manifesto degli
Intellettuali” che vide la luce il 14 gennaio 1898 sulle pagine del giornale
“L’Aurore” di Emile Zola, nel quale si affermavano le ragioni della cultura
contro il potere costituito. E vale anche per Leonardo Sciascia la definizione
che Jean-Paule Sartre, il teorico dell’intellettuale interventista, dette per
il letterato Zola: “quel tale che si impiccia dei fatti altrui”; cioè dei fatti
che riguardano il rapporto tra gli altri e il potere con i suoi meccanismi, le
sue verità e le sue menzogne. Sciascia s’impicciò di questi fatti senza
lasciarsi mai condizionare e senza avere avuto mai alcun appoggio.
La fucina di Sciascia
Egli guardò a quel rapporto attraverso Manzoni, Stendhal, Savinio,
Brancati, Pirandello; autori e pagine cui Sciascia si accostava non per
adoperarli come strumenti di lettura della realtà bensì per abbeverarsi come a
una fonte di saggezza, di sapienza.
E Sciascia lottò contro il suo tempo protetto non da un’armatura ideologica ma
dalla sua coscienza, formatasi alla scuola di pensiero e azione di Gide e di
Bernanos.
Non a caso, come ha notato Claudio Giunta, mentre parla di mafia, terrorismo, giustizia,
politica, Sciascia parla anche sia dell’umanità sia degli italiani, combattendo
contro il virus della retorica e contrastando il contagio dell’imbracamento,
dell’unanimità, del devotismo, del trasformismo.
Da qui, tanto per citare, opere come “Il Contesto”, in cui rimbalza il tema del
potere per il potere e delle ideologie ridotte a mero gioco delle parti; “Todo
Modo”, in cui balza il tema dell’arroganza del potere e della degradazione
della convivenza a complicità compromissoria; “Gli Zii di Sicilia”, in cui
fenomeni percepiti dalla massa come grandi speranze divengono illusioni e
decadono nella delusione. Nella fucina intellettuale di Sciascia, insomma,
prende forma il racconto dell’impostura, del trasformismo, della natura del
potere attraverso trame e personaggi che fanno da sfondo alla crisi di civiltà
e non viceversa. Così le occasioni perdute della storia siciliana diventano
metafora delle occasioni perdute della storia dell’umanità. Illuminante, in
questo senso, il noto passo tratto da “La Sicilia come metafora” nel quale
Sciascia afferma che «la Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi e
contraddizioni, non solo italiani ma anche europei al punto da poter costituire
la metafora del mondo odierno». Occasioni perdute non per fatalismo ma per
cause ben delineate nei processi storici realizzati dagli uomini. Ecco, in
proposito, quel che dichiara in un’intervista del 13 gennaio 1971 al quotidiano
“Il Giornale di Sicilia”: «in Sicilia prima che altrove si è verificata
l’attuale degradazione delle idee e dell’opposizione. L’opposizione è venuta
progressivamente meno contemporaneamente alla calata dei grandi monopoli, in
cui si scopre la corruzione come strumento politico e si ritorna agli interessi
particolari».
Lotte continue
Mentre scriveva e diceva con chiarezza e intransigenza queste cose,
Sciascia subiva maltrattamenti continui, che divennero più intensi quando
decise di impicciarsi dei fatti altrui dall’interno del sistema di potere,
entrando in quello che Pasolini aveva definito “il Palazzo”.
È noto che fu Consigliere Comunale a Palermo, eletto da indipendente nella
lista del Partito Comunista Italiano e deputato eletto nella lista del Partito
Radicale. Secondo le testimonianze di Elio Sanfilippo e di Gianfranco
Spadaccia, svolse con scrupolo i mandati partecipando attivamente e
assiduamente alle sedute consiliari e a quelle parlamentari e occupandosi di
temi quali il problema della casa o l’inchiesta sul sequestro di Aldo Moro.
Entrò in rotta di collisione con il Partito Comunista Italiano quando iniziò la
stagione del compromesso storico e la collaborazione tra la Democrazia
Cristiana e il PCI, che Sciascia vedeva sviluppare su un piano diverso dallo
schema della Resistenza e che collocava nell’ambito dell’eterno trasformismo.
Ruppe l’amicizia con Renato Guttuso per la nota vicenda della dichiarazione di
Enrico Berlinguer sul coinvolgimento dei servizi segreti cecoslovacchi nel
rapimento di Moro, che Sciascia rese pubblica ma che Guttuso smentì
schierandosi con Berlinguer. La rottura, tuttavia, era stata preceduta da uno
scontro epistolare avvenuto in occasione della pubblicazione del libro
“L’affaire Moro”. Oggetto della contesa erano state le lettere scritte dal
politico democristiano durante il sequestro. Sciascia, che le considerava
autentiche, aveva contestato la linea della fermezza adottata dal PCI; Guttuso
esprimeva il suo disappunto non sull’autenticità delle lettere ma sulla
contestazione che lo scrittore faceva ai comunisti. Sciascia rispose: «quel che
mi amareggia di te è quel tuo non dare quel che la gente da te si aspetta: da
te in quanto Renato Guttuso, da te anche in quanto comunista. Se, per esempio,
tu ti levassi in parlamento a dire che è indegno trattare il popolo così come è
stato trattato durante il caso Moro e fino a oggi, che gli italiani sono
stanchi di sentire menzogne, che tutti siamo ansiosi di verità e di giustizia,
credi saresti meno comunista per questo? E saresti comunista per come senti
essere. E saresti Renato Guttuso».
L’affermazione culturale sciasciana della verità come interesse generale
sull’impostura dettata da fini ideologici e interessi di partito innescherà un
altro focolaio polemico con il famoso articolo sui professionisti
dell’antimafia, nel quale l’intellettuale siciliano non solo contesterà il
compromesso tra potere politico e potere giudiziario ma anche il trasformismo
di chi utilizzava la lotta alla mafia per interessi particolari. L’originalità
e la coerenza culturale di Sciascia sono in questo caso attestate dal
coraggioso riconoscimento che qualche anno fa Leoluca Orlando (tra coloro che
più criticarono lo scritto sciasciano) fece nel corso di una intervista
rilasciata al quotidiano “Il Mattino” il 21 luglio 2015. Orlando affermò che
oggi «chi insiste con l’Antimafia è un professionista dell’Antimafia, proprio
come denunciava Sciascia»; e al cronista che gli ricordava che lo scrittore, in
quell’articolo, ce l’aveva con il Sindaco di Palermo, Orlando rispose: «Lo so
bene, con me, con Borsellino. Sbagliava persone ma nel messaggio aveva ragione».
Se la memoria ha un futuro
È intensamente espressivo il titolo che Sciascia dette all’ultima raccolta
di suoi testi, trentuno articoli scritti e apparsi tra il 1979 e il 1988: “A
futura memoria”. L’uomo che aveva lottato contro il suo tempo, aveva contemporaneamente
lottato a favore di un tempo a venire. Sciascia, per questa sua indole, per la
sua concezione dell’impegno culturale, per la sua spinta a ricercare la verità,
è stato tra i pochi intellettuali capaci di creare immagini del futuro a partire
dal passato. L’opera, però, ha un sottotitolo dal significato ironico: “Se la
memoria ha un futuro”. L’ultimo avvertimento di Sciascia: non perdere la
capacità di ricordare, non perdere la connessione con la storia fonte di vita e
di azione. Riletto oggi, questo sottotitolo, appare d’inquietante attualità. Un
motivo in più per augurarsi che gli eventi dedicati al centenario della nascita
di Sciascia non diluiscano il suo pensiero nella retorica e nel moralismo.
Michelangelo Ingrassia
https://www.esperonews.it/ - Venerdì, 08 Gennaio 2021
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